Nella migliore tradizione dei Feuilleton, ecco un breve riassunto delle puntate precedenti.
Per lungo tempo, la legge italiana ha considerato i caricatori prismatici amovibili per le armi da fuoco lunghe e corte come “parte d'arma”, ovvero come componente indispensabile ed imprescindibile al loro funzionamento. Il loro acquisto era possibile solo in armeria previa presentazione di una licenza di porto d'arma, e la loro detenzione era soggetta a denuncia presso le autorità di Pubblica Sicurezza.
Con la legge 110 del 18 aprile 1975 e l'istituzione del Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo, la capacità dei caricatori amovibili per le armi lunghe e corte entrava a far parte della scheda di catalogazione come quella dei serbatoi fissi: per ciascuna arma doveva essere indicata una capacità, e l'uso di caricatori di capacità superiore a quella indicata nella scheda era considerato reato, assimilabile alla “Alterazione d'arma” – proprio come mozzare le canne di una doppietta! – in base all'articolo 3 della legge 110/1975 stessa.
Di fatto, se non a termini di legge, il semplice possesso dei caricatori di capacità normale (quelli che la favella anti-armi definiva, e definisce, “ad alta capacità”) veniva limitato a chi possedeva una licenza di collezione, dato che ne veniva proibito l'uso. A far da ciliegina sulla torta interveniva la legge 185 del 9 luglio 1990 che arrivava ad inserire i caricatori di capacità pari o superiore ai 30 colpi tra i “materiali d'armamento”.
Dulcis in Fundo, negli ultimi anni della sua esistenza, la Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi decideva di sua sponte – e senza nessun appiglio legale a giustificare tale presa di posizione – di non consentire la catalogazione di armi corte di capacità superiore ai 15 colpi e di armi lunghe di capacità superiore ai 5 colpi fatta eccezione per le armi corte classificabili come “sportive” previa consultazione con le associazioni affiliate al CONI.
Con la direttiva europea 2008/51/CE, recepita dall'Italia con il Decreto Legislativo 204 del 28 ottobre 2011, cambiavano molte cose: i caricatori amovibili venivano rimossi dal novero delle “parti d'arma”; ne veniva dunque liberalizzata l'importazione e la commercializzazione in tutte le loro capacità, e potevano finalmente essere acquistati senza porto d'armi, senza restrizioni, e senza necessità di denuncia alle autorità di Polizia.
Lo stesso D.Lgs. 204/2011 aboliva la Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi ed il Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo, ed in linea di massima accettava il principio in base al quale le armi già punzonate da un banco di prova riconosciuto a livello UE non dovessero essere sottoposte, in fase d'importazione, alla ri-bancatura presso il Banco Nazionale di Prova di Gardone Val Trompia.
La liberalizzazione dei caricatori ha avuto degli importanti effetti positivi sul mercato armiero in Italia. Anzitutto ha reso ancora più popolari i Black Rifles o “fucili sportivi moderni”, per i quali già da tempo l'interesse si stava allargando al di fuori del classico bacino d'utenza degli appassionati di questo tipo d'arma.
Per chi non fosse familiare con i termini, parliamo di quelle armi lunghe semi-automatiche – normalmente a fuoco centrale, ma anche a percussione anulare o a canna liscia – esteticamente simili ad armi militari, che ne condividono in parte l'impostazione tecnica fatta la fondamentale eccezione per l'impossibilità di funzionamento o riconversione al tiro a raffica.
Cosa più importante, la possibilità di acquistare ed utilizzare i caricatori a capacità ha reso possibile anche in Italia la pratica di alcune specialità di tiro dinamico – quale ad esempio il 3-Gun, una disciplina combinata che prevede l'ingaggio di bersagli con pistole semi-automatiche, fucili semi-automatici a canna liscia di tipo tattico, e fucili semi-automatici a canna rigata del tipo menzionato, ovvero “d'impostazione militare”.
Dal punto di vista della difesa personale ed abitativa, la disponibilità dei caricatori a capacità standard ha indubbiamente, nella mente di molti delinquenti, aumentato il potere deterrente delle pistole e delle carabine possedute eventualmente dalle potenziali vittime.
Questo perché la liberalizzazione dei caricatori non si è limitata alla disponibilità commerciale, ma anche al loro uso. A rigor di logica nell'interpretazione della legge – e basandosi sul principio democratico secondo cui “è permesso tutto ciò che non è espressamente proibito” – non essendo più “parti d'arma”, l'impiego di caricatori di differenti capacità non poteva più configurarsi quale “alterazione d'arma”, anche perché in base alla lettera dell'articolo 3 della legge 110/1975 incorre tale reato “chiunque alterando in qualsiasi modo le caratteristiche meccaniche o le dimensioni di un'arma, ne aumenti la potenzialità di offesa, ovvero ne renda più agevole il porto, l'uso o l'occultamento”.
Va da se' che l'impiego di caricatori di diversa capacità non altera le dimensioni di un'arma – quantomeno non in maniera tale da renderne più agevole il porto, l'uso o l'occultamento (un'arma con un caricatore voluminoso risulta meno agevole da portare ed occultare!) – né l'utilizzo di un caricatore può essere considerata una alterazione delle “caratteristiche meccaniche” dell'arma (non si interviene sul sistema di funzionamento!); li si potrebbe tutt'al più considerare alla stregua di accessori, niente più e niente meno.
Nonostante in base ad un'interpretazione della citata legge 185/1990 si continuassero a considerare i caricatori da 30 colpi o superiori quali “materiale d'armamento” – e difatti il grosso dei caricatori arrivati in Italia dal 2011 in poi sono stati limitati a 29 colpi – qualche caricatore a capacità elevatissima è in effetti arrivato.
Non a torto, oseremmo dire: se la normativa europea e la legge italiana di recepimento hanno eliminato i caricatori amovibili dal novero delle “parti d'arma”, va da se' che essi non possano considerati “parte d'arma da guerra” o “materiale d'armamento”; essendo dunque in contraddizione con norme di più recente emanazione – e, nel caso della normativa europea, con una norma di rango superiore! – è pacifico che tale codicillo della 185/1990 debba essere emendato o considerato non applicabile.
Tutto a posto, dunque? Una vittoria del buon senso sulla burocrazia e sul disarmismo bieco e senza reali motivazioni al di fuori dell'ideologia cieca e della smania di potere? Non proprio.
L'emanazione del D.Lgs. 204/2011 è infatti stata accolta con moti di “allarme” dai vertici e dai rappresentanti di categoria delle Forze dell'Ordine, che lamentavano come tale “liberalizzazione” avrebbe potuto cagionare “pericoli” per la Pubblica Sicurezza; a tali alti “gridi di dolore” si sono aggiunte poi dichiarazioni da parte di membri del Parlamento secondo cui sarebbe stato necessario comunque evitare che sul mercato civile arrivassero “vere e proprie armi da guerra con volume di fuoco superiore a quello delle armi in dotazione alle Forze dell'Ordine” – trascurando completamente il fatto che la normativa italiana non ha mai contemplato questa caratteristica quale distintiva delle “armi da guerra”, né lo fa la direttiva europea alla quale col 204/2011 ci eravamo adeguati.
È stato così approntato un “Correttivo” – per la precisione il Decreto Legislativo 121 del 29 settembre 2013 – che a partire dal 5 novembre dello scorso anno ha fatto rientrare dalla finestra tutte le restrizioni tipicamente italiote che l'Europa ci aveva imposto di far uscire dalla porta: limitazione della capacità delle armi comuni e da caccia (5 colpi per le lunghe, 15 per le corte) e “divieto di introduzione sul territorio nazionale” di armi comuni e da caccia con capacità superiore e dei loro caricatori “ad alta capacità”; reiterazione del divieto di commercializzazione di armi corte in calibro 9x19mm (“9 Parabellum”), ma liberalizzazione di quelle lunghe.
Già un anno prima, con la legge 135 del 7 agosto 2012 − in pratica infilando a tradimento un codicillo nella legge sulla Spending Review − si era dato mandato al Banco Nazionale di Prova di “verificare per ogni arma prodotta, importata o commercializzata in Italia, la qualità di arma comune da sparo e la corrispondenza della stessa alle categorie di cui alla Dir. CEE/477/91”, e di “attestare l’esito positivo di tale verifica” tramite “l’attribuzione di un codice identificativo da parte dell’Ente, liberamente consultabile sul sito istituzionale dello stesso”.
La Legge 135/2012 e il D.Lgs. 121/2013, in due colpi di fatto tradivano e stravolgevano lo spirito del 204/2011, indirizzando le politiche italiane in materia di armi civili in direzione totalmente contraria rispetto a quanto chiesto dall'Europa.
In forza di ciò si tornava anche agli arbitrii a cui ci eravamo abituati con la Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi: il Consiglio d'Amministrazione del Banco Nazionale di Prova decideva infatti che non sarebbero state certificate come armi comuni le armi lunghe e corte munite di baionetta, e quelle “in grado di utilizzare lo stesso munizionamento della armi da guerra”, con una lista di proscrizione ben precisa: “5,7x28; 5,56x45; 7,62x39; 7,62x51; .30-06; 7,62x54R; 12,7x99; 5,45x39 e loro sinonimi più altri eventuali”.
Tanto si decideva “in ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 1 della Legge 110/75” – o quantomeno in ottemperanza ad una interpretazione arbitrariamente restrittiva della lettera della legge, che indica le “armi da guerra” come armi dalla “spiccata potenzialità offensiva” che però “sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere per l'impiego bellico”.
Proprio quest'ultima parte si decideva letteralmente di ignorare, perché altrimenti si sarebbe dovuto ragionare su quale “truppa nazionale o estera” utilizzi pistolone semi-automatiche in calibro da fucile come dotazione d'ordinanza (risposta: nessuna), e quale sia la “spiccata potenzialità offensiva” di pistole in calibro 9 Parabellum o anche 5,7x28mm (risposta: nessuna, anche nel caso di quest'ultimo calibro, per il quale sono camerate molte armi civili in vendita all'estero costruite in modo da tollerare solo l'impiego delle munizioni con palla non perforante).
Qual'è la ratio di una retromarcia così netta? Dev'esserci una vera emergenza-armi in Italia, visto che si è deciso di procedere in maniera illegale ed incostituzionale violando la normativa europea, adottandola ed applicandola in maniera restrittiva e – per quanto riguarda la limitazione dei caricatori imposta dal 121/2013 – a dispetto della contrarietà delle Commissioni competenti, il cui parere era vincolante trattandosi di un Decreto Legislativo emanato in base a legge-delega che non includeva la questione dei caricatori nel novero dei temi su cui il Parlamento dava mandato al Governo di legiferare in sua vece.
Invece... indovinate un po'? Non c'è nessuna emergenza-armi in Italia.
Difficile chiamare “emergenza” il numero di vittime delle armi da fuoco in Italia, che secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità – per la precisione secondo il rapporto "Inter-Country Comparison of Mortality for Selected Cause of Death" pubblicato il 20 giugno scorso – nel 2014 (ultimo anno per cui sono disponibili le statistiche) si è attestato sulle 798 unità: si parla di 1.31 morti per arma da fuoco ogni 100.000 abitanti. E questo numero include tutte le morti: gli omicidi e i suicidi, gli incidenti di caccia e quelli di maneggio, le vittime di attacchi terroristici, gli aggressori uccisi dalle loro vittime per legittima difesa e i criminali morti in scontri a fuoco con le Forze dell'Ordine; cosa più importante, questo numero include i morti causati da tutte le armi da fuoco: legali ed illegali, civili e da guerra.
Difficile pensare che il tipo di armi utilizzate e la capacità dei caricatori faccia testo, in particolare dato che, in dettaglio, il numero di suicidi con armi da fuoco si attesta poco sopra 0.80 per 100.000 abitanti, contro gli 0.36 omicidi per 100.000 abitanti nello stesso periodo. È chiaro come il grosso delle vittime per armi da fuoco in Italia siano causate da atti di autolesionismo volontari che la proibizione delle armi da fuoco – anche solo di “certi tipi” – o dei caricatori “ad elevata capacità” non eviterebbe, come dimostra il fatto che nel disarmatissimo Giappone il suicidio è da anni la prima causa di morte per gli uomini dai 20 ai 44 anni d'età.
Ancora meno “emergenziale” risulta la situazione nell'intera Unione Europea; persino l'ormai ex Commissario agli Affari Interni Cecilia Malmström – una delle più grandi nemiche del diritto alle armi per i cittadini europei – nel giustificare le proposte disarmiste del suo "libro bianco" pubblicato lo scorso novembre parla di “circa 10.000 morti per armi da fuoco nell'UE negli ultimi dieci anni”.
Dunque, tenendo sempre presente il fatto che il numero comprende tutte le morti per armi da fuoco, comprese i suicidi, si parla di una media di 1000 morti all'anno da spalmarsi su 28 paesi. Ovvero, sempre in media: poco meno dei morti per incidente sul lavoro ed un terzo dei morti per incidente stradale che ogni anno si contano solo in Italia.
“Chi di dovere” ha deciso di ignorare questi fatti, cavalcando quando necessario l'onda lunga delle “tragedie della follia” e delle “stragi delle armi” d'oltreoceano per imporre limitazioni arbitrarie, contrarie alla legge italiana e alle normative europee, e rafforzandole con i più recenti tentativi di limitazione al numero di colpi utilizzabili durante l'attività venatoria nonché con l'emanazione di circolari se possibile ancora più ligie all'interpretazione maggiormente restrittiva.
Ma a chi giova tutto questo?
Non agli operatori delle Forze dell'Ordine, molti dei quali sono a loro volta cacciatori e tiratori – anche se le opinioni personali di tanti di loro in fatto di armi in mano ai civili sono viziate dalla scarsa conoscenza del tema, dovuta a sua volta sia ad un addestramento in genere scarso che alla disinformazione che viene loro propinata dai più alti dirigenti dei rispettivi Corpi d'appartenenza.
Non ai membri delle Polizie locali, provinciali e regionali, né ai professionisti della Sicurezza privata, che utilizzano armi di reperibilità commerciale (dunque civili) e quindi si ritrovano, in caso di necessità, non solo poco preparati – anche qui, scarso addestramento – ma anche in difetto di volume di fuoco rispetto ai criminali di turno.
E sicuramente non ai comuni cittadini, che si vedono imporre restrizioni alle loro attività sportive (caccia, tiro nelle varie specialità) e soprattutto al loro diritto a difendersi – pur nei limiti fin troppo stretti a cui esso è confinato dalla legge italiana, o meglio, dal modo sciagurato in cui la “legittima difesa” è intesa dagli ambienti statali e giuridici! – e a sentirsi sicuri.
Anche il concetto che “i criminali non rispettano la legge” è sfuggito a “Chi di dovere”, che nel redigere il D.Lgs. 121/2013 nelle segrete stanze del Ministero dell'Interno non hanno prestato la minima attenzione ad inserirvi norme mirate al contrasto specifico del traffico illecito.
In questo modo Container pieni di Kalashnikov a raffica e di altre armi veramente da guerra – complete di relativi caricatori con munizioni API – continuano a transitare per il porto di Gioia Tauro ed arrivare direttamente sul portone dei capimandamento di turno, che provvederanno ad usarli per armare i soldati delle cosche o per rivenderli sul mercato nero nazionale e internazionale, per la gioia di tutti, dai terroristi ai rapinatori di banche e furgoni portavalori, fino al Signor Rossi di turno che decida di darsi al crimine e non abbia ovviamente intenzione di spendere il tempo e il denaro necessario ad ottenere un legittimo porto d'armi.
È il caso infatti di ricordare che in Italia il grosso degli atti criminali di importante rilievo, in particolar modo quelli riconducibili alla criminalità organizzata o comunque alle grosse bande, vede l'uso di armi da guerra illegalmente introdotte nel Paese, mentre non ci risultano casi in cui sia mai stato usato un fucile sportivo moderno (o “d'impostazione militare”, come amano dire gli anti-armi!), con o senza caricatore ad alta capacità.
O, per meglio dire, un caso solo ci risulta: quello dei delitti della Uno Bianca, commessi da una banda composta in gran parte da agenti di Polizia regolarmente in servizio, che usavano piattaforme d'arma (pistole Beretta 98, fucili semi-automatici Beretta AR-70/.222 Sport) per le quali avevano ricevuto un addestramento specifico dal Corpo d'appartenenza.
Ovvero: una scheggia impazzita della stessa comunità degli appartenenti alle Forze dell'Ordine che persone che le restrizioni sui caricatori amovibili dovrebbero “proteggere”, almeno secondo pareri eminenti quali quelli di Alessandro Pansa (Capo della Polizia), della dottoressa Maria Paravati (dirigente dell'Area Armi ed Esplosivi del Ministero dell'Interno) e del Prefetto Gianfranco Tomao (direttore dell'Ufficio per l'Amministrazione Generale del medesimo Ministero) – ossia di coloro che molte fonti indicano come gli artefici principali del D.Lgs. 121/2013.
Dobbiamo inoltre tenere a mente che i rischi connessi alle “stragi della follia” o alle “sparatorie in stile americano” non appartengono all'ambiente italiano. C'è un motivo per cui, pur con l'ampia disponibilità di armi da fuoco in Italia – si parla di numeri variabili tra i 7 e i 14 milioni d'armi, non definitivi solo perché nessuno si è mai dato la pena di centralizzare i dati raccolti raccolti ancora spesso in forma cartacea presso i Commissariati di P.S. e i Comandi-Stazione dei C.C. su tutto il territorio nazionale – nessuno sia mai entrato in una scuola o in un supermercato sparando all'impazzata su donne e bambini... nessuno che non fosse un terrorista, quantomeno. Anche la follia segue una logica, quasi sempre legata al contesto socioculturale in cui la personalità dell'individuo cresce e si sviluppa.
Sotto questo punto di vista, il contesto socioculturale italiano – come quello della maggior parte dei paesi dell'Europa meridionale – consente uno sfogo della rabbia repressa e dell'aggressività ben diverso da quello che si ha in società più compresse; esso è inoltre generalmente incanalato in maniera diversa: chi si sfoga con la violenza tenderà, anche nell'ambito di un Acting-Out psicotico, ad indirizzarsi nei confronti di chi considera “causa dei suoi problemi”, individualmente o in gruppo.
Questo spiega la violenza contro i tifosi avversari e contro le Forze dell'Ordine negli stadi come le coltellate o le pistolettate di compagni allontanati dalle partner, ma rende più difficile che tale sfogo possa avere come obiettivo persone prese a caso, a differenza di quanto accade non solo in nord Europa o nei paesi anglosassoni, ma anche in Cina – ove alla proibizione assoluta di possesso d'armi da fuoco da parte dei comuni cittadini fa da contraltare l'impressionante numero di attacchi alle scuole da parte di squilibrati armati di coltelli.
I casi di “sparatori folli” che colpiscano bersagli a caso, in genere dai tetti o dalle finestre di casa, in Italia fanno molta notizia anche perché si contano sulle dita di una mano.
Se pensate che esse bastino a giustificare restrizioni a pioggia, vorrete scusarci se − vigendo un sistema di responsabilità penale individuale − ci rifiutiamo di accollarci la responsabilità per gli errori, i crimini o le scelleratezze commesse da altri con cui la maggior parte dei cittadini onesti che detengono armi in ossequio ai dettami di legge non ha, né mai ha avuto o mai avrà, niente a che fare.
Peraltro, il sistema italiano dà alle autorità uno strumento potentissimo per evitare questo genere di tragedie: basta negare le licenze di possesso e porto d'armi alle persone che siano note non solo per la mancanza di equilibrio mentale, per i precedenti penali o per l'abuso di alcool o droghe, ma anche per la tendenza alla violenza o per l'appartenenza a gruppi radicali (pensiamo all'estremista di destra che il 13 dicembre 2011 ha sparato a tre senegalesi a Firenze).
Certo, si tratta di uno strumento efficace se viene applicato come si deve, iniziando con le persone più note e senza peraltro usarlo come scusa per implementare altre misure liberticide o lesive della Privacy quale ad esempio il “controllo dei profili Web” suggerito da alcuni.
Insomma: a chi giova la proibizione dei caricatori “ad alta capacità” – tentata col D.Lgs. 121/2013 – e il costante attacco alle armi “nere” e ad altre tipologie di armi da fuoco civili moderne?
La risposta è tra le righe, qui sopra: a “Chi di dovere”.
Ove “Chi di dovere” è rappresentato, in Europa e in molti altri Paesi del mondo, da politici poco interessati al tema dell'ordine pubblico o dei diritti civili e individuali, ma molto interessati ad un argomento che faccia presa su un elettorato ignorante, facilmente manovrabile ed influenzato dalla propaganda dei Mass Media generalisti; ci sono, certo, anche da noi, le eccezioni: politici convintamente anti-armi, in ossequio ad un'idea malata dell'animalismo alla Disney (quello, per intenderci, che fa gridare allo scandalo per gli allevamenti di topi destinati alla ricerca o per l'abbattimento dei piccioni cittadini) o per un'interpretazione personale estremista e sbagliata del concetto di pacifismo. Ma sono molto, molto pochi.
“Chi di dovere” è rappresentato, in Italia, dalla folta platea di grigi funzionari della burocrazia Statale che vedono nel mercato delle armi e nel mondo degli appassionati un “bersaglio sensibile” su cui puntare per rafforzare il proprio potere personale e di categoria; nello specifico del tema e di questo momento storico, per recuperare il potere perduto con l'abolizione del Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo e della Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi.
Potere che significa poltrone e soldi.
In ciò, essi trovano un facile appoggio nelle idee delle frange d'opinione pubblica più facilmente attirate dalla concezione errata di pacifismo e non-violenza o dall'animalismo estremista di cui sopra.
Cosa ancora più preoccupante, essi possono contare sulla compiacenza di frange dell'industria armiera italiana, che con le limitazioni ad alcuni tipi di prodotto – generalmente d'importazione – possono avvantaggiarsi nei confronti della concorrenza, continuando a spingere artificialmente tipologie di armi alle quali il mercato moderno, con le sue tendenze più giovani e dinamiche, non si dimostra più ricettivo come un tempo, ma che l'industria non vuole abbandonare perché la riconversione a prodotti più “di tendenza” richiederebbe un cambio di politiche produttive ed un aggiornamento tecnologico, con conseguenti investimenti che in tanti preferiscono non affrontare non per mancanza di risorse ma per pura comodità.
Queste tipologie di armi – dalle doppiette finto-damascate alle repliche storiche – portano anche un ulteriore vantaggio a chi le produce, in particolar modo se si riesce a imporle sul mercato con provvedimenti di forza tesi ad “annullare” la potenziale concorrenza delle ben più attraenti armi sportive moderne.
Esse sono infatti “Politically Correct”, si possono esportare anche in paesi profondamente disarmisti come Giappone o Regno Unito, ed essendo Made in Italy è possibile spuntare per esse un prezzo per unità superiore a quello dei prodotti più direttamente concorrenti.
Questione, dunque, di guadagni facili; proprio per questo, per la loro compiacenza, “Chi di dovere” tenta spesso di “premiare” le quinte colonne dell'industria con facilitazioni all'Export: ancora concorrenza sleale, che tenta di viziare il mercato – stavolta quello internazionale – con effetti peraltro diversi da quelli sperati in quanto i mercati stranieri rifiutano di sottostare a questo genere di giochetti.
L'unica tipologia di restrizione che la normativa europea stabilisce è quella che impone il limite di tre colpi per le armi lunghe lisce e cinque colpi per le armi lunghe rigate non già “da caccia”, ma “quando usate a caccia”.
In Italia invece si è voluti tornare a limitare in maniera lineare e generale, imponendo la limitazione fisica di caricatori e serbatoi – limitazione peraltro che ha effetto solo sui caricatori venduti insieme alle armi. Quelli “ad alta capacità” continuano ad essere disponibili Aftermarket in quanto il “Correttivo 204” esplicitamente li autorizza per le armi classificate sportive, e al momento dell'importazione non è possibile verificare su quali armi verranno effettivamente usati.
Dunque, nella sostanza cambia poco o niente: tanti li comprano e li usano – incluso chi vi scrive – e finora non si è verificato nessuno dei temuti Blitz presso i poligoni di tiro per “gabbiare” i trasgressori, perché il D.Lgs. 121/2013 non è applicabile senza che divengano immediatamente evidenti tutte le sue storture e tutti i suoi profili d'illegittimità e d'incostituzionalità, che sicuramente le circolari esplicative di sapore restrittivo non possono sanare.
E questo lo sa anche “Chi di dovere”.
La limitazione dei caricatori e i periodici tentativi di restrizione del mercato delle armi sportive moderne sono due esempi di attività legislativa inutile, motivata solo da interessi personali e dalle mire di potere di gruppi d'interesse molto ristretti. E in una fase economicamente, politicalmente e socialmente così complicata, queste sono le cose di cui il nostro Paese può senz'altro fare a meno.