I fatti
Materia: diritto della caccia
Ambito: impedimento di accesso al fondo per l’esercizio della caccia
Normative di riferimento: art. 842 codice civile, legge n. 157 del 1992
Tizia richiede all’Amministrazione di poter sottrarre i fondi di sua proprietà all’accesso dei cacciatori per l’esercizio dell’attività venatoria.
La sua richiesta, sostenuta da alcune associazioni animaliste, è basata in particolare su motivazioni legate soprattutto a una dimensione etica e morale, e non già su elementi fattuali e concreti in grado di rappresentare ragioni certe.
In particolare, si legge nel testo della sentenza, Tizia si sarebbe appellata al proprio diritto all’obiezione di coscienza, in quanto l’attività venatoria sarebbe da questa considerata contraria ai suoi principi etici e morali.
In questo caso, il riferimento normativo che andrebbe a sugellare la scelta di Tizia, sarebbe l’art. 9 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che si traduce nella fattispecie nella libertà di non rendere disponibile il fondo per la cattura e l’uccisione degli animali selvatici, diritto tuttavia non ricompreso tra le ragioni indicate nell’impugnata DGR per la sottrazione dei fondi dall’attività venatoria.
Il rigetto del ricorso
Vi diciamo immediatamente come il ricorso di Tizia verrà, totalmente, rigettato dai giudici del Tar.
È interessantissimo andare a valutare le motivazioni che hanno spinto i giudici a pronunciarsi in questo senso.
Prima di tutto l’organo giudicante, in sede di stesura della sentenza, riporta tutta quella che è la procedura che il privato dovrebbe seguire per far si che, sulla base di elementi fattuali relativi alla salvaguardia delle colture presenti sul fondo, o su altre motivazioni inopinabile, può richiedere all’Amministrazione di escludere il proprio fondo dalle aree su cui è possibile esercitare la caccia, nel pieno rispetto della legge.
Inoltre i giudici spiegano un altro fatto molto importante, e cioè come l’interesse del privato, seppur basato su un diritto che viene riconosciuto non solo dal legislatore nazionale, ma anche da quello europeo, non può comunque contrastare con l’esigenza, di pubblica utilità, alla gestione del patrimonio faunistico attraverso l’attività venatoria.
Quel che infatti fanno i calendari venatori che ogni anno le Regioni approvano non è la tutela della caccia di per sé, ma il diritto di chiunque a vivere in ambienti dove il patrimonio faunistico è correttamente gestito, evitando quei problemi che potrebbero derivare da una mala gestione dello stesso patrimonio. Esempio classico sono i gravissimi danni che gli ungulati fanno nei confronti delle culture e dei fondi, appunto, che vengono letteralmente distrutti ad esempio dal cinghiale.
La caccia, come attività non prettamente ludica e ricreativa, ma come strumento di gestione e di conservazione dell’ecosistema e di gestione del patrimonio faunistici, trova la propria legittimità anche in una sentenza della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 316 del 4 dicembre 2009.