I fatti
Materia: diritto delle armi e di pubblica sicurezza
Ambito: concorso in detenzione abusiva di arma da fuoco
Normative di riferimento: art. 699 codice penale
Tizio e Caia vengono condannati in primo grado per il reato di furto in abitazione, aggravati. Caia, in particolare, subirà una condanna ai sensi del reato di cui agli artt. 2 e 7 della legge 895 del 1967, per concorso in detenzione abusiva di arma da fuoco.
La vicenda processuale, a seguito di articolate condanne nei confronti dei due soggetti, approda in Cassazione e i due presenteranno i loro rispettivi ricorsi. Quello che a noi interessa, però, è il ricorso presentato da Caia.
Il ricorso
Vediamo in che modo Caia, attraverso la di lei difesa, decide di articolare il proprio ricorso.
Secondo i difensori di Caia, il fatto l’elemento fattuale preponderante in questo caso è la convivenza.
Secondo la difesa, infatti, non si sarebbe potuto parlare di convivenza tra Tizio e Caia, in quanto i due, in realtà, convivevano saltuariamente e sporadicamente. Non vi era quindi una situazione di convivenza certa e stabile.
Questa mancanza di una convivenza acclarata e stabile non avrebbe quindi dovuto far propendere i giudici per una condanna di concorso in detenzione abusiva di arma da fuoco.
Il rigetto del ricorso
Vi diciamo subito che il ricorso, in questo caso, verrà rigettato completamente. Vediamo quindi insieme in che modo i giudici hanno ragionato.
Prima di tutto, secondo i giudici, il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza, non ravvisandosi alcun vizio nella motivazione della sentenza impugnata, la quale ha affermato la responsabilità della predetta a titolo di concorso, ritenendone dimostrati i necessari requisiti oggettivi e soggettivi, sulla base di un insieme di elementi che vanno ben oltre la circostanza della coabitazione con il coimputato Tizio— coabitazione peraltro non affatto saltuaria come assume la difesa ma stabile secondo la puntuale ricostruzione svolta nella sentenza impugnata anche sul punto.
Gli Ermellini proseguono, inoltre, analizzando tutta una serie di pronunce sul tema del concorso in detenzione abusiva di arma da fuoco, considerando quali elementi vadano considerati oltre la convivenza, per far si che questa fattispecie di delitto possa configurarsi.
Ad esempio, secondo la sentenza n. 12308 del 14 febbraio 20202, si è affermato che integra un'ipotesi di concorso di persone nel delitto di illecita detenzione di armi la condotta di chi, consapevole della presenza di esse nell'abitazione che condivide con il loro proprietario, nulla faccia per rimuovere tale situazione antigiuridica, manifestando, con un comportamento finalizzato a protrarne gli effetti, una chiara connivenza con il predetto e pertanto dimostrando di trovarsi in una situazione di fatto tale da poter, comunque, in qualsiasi momento, disporre anche autonomamente delle armi.
Nel caso in esame, innanzitutto, non vi è dubbio circa la conoscenza da parte dell'imputata delle armi, alcune delle quali sono state addirittura rinvenute all'interno di un armadio accanto ad effetti personali della stessa.
A ciò si aggiunga che oltre alle armi venivano rinvenuti nel locale cucina, in bella vista, sul tavolo, sopra i pensili, a terra, numerosi oggetto inequivocabilmente provento di furto o comunque utilizzati per la commissione di reati.
Si è poi congruamente posto in evidenza non solo che l'imputata ciò nonostante non avesse mai inteso denunciare la presenza delle armi presenti in casa ma anche come la stessa avesse assunto un comportamento del tutto "difensivo" nei confronti del compagno in sede di perquisizione essendosi rifiutata di collaborare alle indagini non consentendo agli operanti di accedere al telefono cellulare di Tizio, per il cui sblocco era necessaria l'impronta facciale Face Id della stessa.
In sostanza, quindi, possiamo affermare come, nel caso di specie, la condanna per il delitto di concorso in detenzione abusiva di armi da fuoco, si sia di fatto configurata non sulla base della semplice convivenza, ma sulla base di ulteriori elementi che hanno tracciato un chiaro intento della persona condannata a non rimuovere la situazione antigiuridica in cui versava.