Nel febbraio del 1945, la Seconda guerra mondiale era ormai agli sgoccioli. In maggio le truppe sovietiche sarebbero entrate a Berlino, e il suicidio di Adolf Hitler avrebbe posto fine al nazifascismo in Europa. Sul fronte dell’Oceano Pacifico, invece, la situazione era ancora molto calda. Le truppe giapponesi, convinte della natura divina dell’imperatore che le guidava e del loro destino di dominio sull’Asia come “razza eletta”, osservavano il ferreo codice d’onore di guerra degli antichi Samurai che vedeva la disfatta come un terribile disonore lavabile solo col suicidio rituale degli sconfitti (mediante la tecnica del Seppuku o Harakiri), e riservava una considerazione di quasi santità ai combattenti che si immolavano in battaglia.
Le condizioni del Giappone, ormai disperate, sembravano non importare ai suoi capi militari, che imponevano alle truppe una resistenza stoica, o forse folle, e cercavano di compensare la scarsità di materiale bellico con un aumento di fanatici attacchi Kamikaze.
Questo era il tipo di resistenza a oltranza che i vertici americani sapevano di dover affrontare, quando lanciarono, il 16 di febbraio, la “Operazione Detachment”, nome in codice per la prima vera invasione di una parte di territorio giapponese: l’isola di Iwo Jima.
Situata a circa 500 miglia a sud della baia di Tokyo, l’isola era fornita di una stazione radio e di due campi d’aviazione a lungo usati dagli aerei giapponesi per bombardare la flotta americana; secondo i piani USA, l’isola doveva divenire base per una serie di attacchi aerei sul Giappone, preludio a una massiccia invasione di terra. Sebbene i vertici militari la considerassero un bersaglio secondario rispetto alle isole di Taiwan e a Okinawa, in realtà Iwo Jima era d’importanza fondamentale per mantenere la supremazia degli Alleati sul Pacifico e per tenere il Giappone sotto costante pressione militare, nella speranza di spingerlo alla resa.
D’altro canto, dopo la battaglia di Guadalcanal, i giapponesi avevano iniziato a prendere molto sul serio la possibilità di un’invasione americana della loro madrepatria; e sapevano che l’arcipelago Ogasawara, di cui Iwo Jima è l’isola più importante, sarebbe stata probabilmente la prima porta a cui il nemico avrebbe voluto bussare. Sotto il comando del generale Tadamichi Kuribashi, l’isola era stata pesantemente fortificata in base a uno schema fuori dai canoni della classica dottrina militare giapponese: messi al bando gli attacchi in massa al grido di “Banzai”, il piano prevedeva la predisposizione di diverse linee di difesa concentriche fatte di campi minati, bunker con mitragliatrici, carri armati mimetizzati, e un sistema di casematte e pezzi di artiglieria in punti strategici a poca distanza dalla costa e sul monte Suribachi, la cima più importante dell’isola. Le postazioni dovevano essere in grado di comunicare tra loro tramite una rete di gallerie scavate lungo tutta la superficie dell’isola e all’interno del monte, simili a quelle già usate dalle truppe italiane e austro-tedesche sui monti del Carso durante la Prima guerra mondiale, o a quelle che, una ventina d’anni più tardi, i Vietcong avrebbero usato per dare del filo da torcere alle truppe USA.
Il generale Kuribashi voleva che le sue truppe, al riparo dai bombardamenti, lasciassero che i Marines sbarcassero e si addentrassero nella fitta vegetazione dell’isola per poi sterminarli in una serie di agguati, mentre l’arrivo di rinforzi sarebbe stato bloccato dall’artiglieria. Kuribashi, così facendo, aveva in effetti previsto in gran parte lo schema d’attacco americano, elaborato tra gli altri dal generale Douglas McArthur e dall’ammiraglio Chester Nimitz, che prevedeva il supporto dell’artiglieria navale e dei bombardieri B-29 per lo sbarco del V Corpo Anfibio e di tre divisioni di Marines supportate dai carri armati del IV e V Battaglione, a est e a ovest dell’isola.
Lo sbarco iniziò alle 2 del mattino del 19 febbraio, dopo un intenso bombardamento da parte della flotta americana che nei tre giorni precedenti aveva circondato l’isola. Una squadra di cento bombardieri B-29 spazzò Iwo Jima in aggiunta all’artiglieria navale, distruggendo a terra gli aerei stazionati sull’isola, e per le 8:30 del mattino era iniziato lo sbarco dei 30.000 Marines, che sarebbe stato completato per il pomeriggio. Le difese giapponesi, ottimamente preparate, crearono subito dei problemi. Il monte Suribachi, obiettivo primario in quanto sede della base radio e del più importante dei due campi d’aviazione dell’isola, era tutto un nido di bunker di mitragliatrici e di postazioni d’artiglieria che scatenarono subito un autentico inferno contro la flotta americana e le truppe da sbarco. I Marines lottavano in un ambiente inospitale, il cui suolo di natura vulcanica rendeva difficile la salita e quasi impossibile lo scavo di buche d’appostamento. Lo sbarco del primo corpo di spedizione, seguito nei giorni successivi da una forza aggiuntiva di altri 40.000 uomini, avvenne sotto un intenso fuoco giapponese che li costrinse ad avanzare metro per metro.
Non è affatto un’esagerazione sostenere che la conquista dell’isola avvenne, letteralmente, palmo a palmo, in una cruenta battaglia fatta di scontri a distanza ravvicinata. L’inefficacia dell’artiglieria e dei bombardamenti aerei contro le gallerie dei giapponesi costrinsero i Marines a espugnarle con un uso massiccio e brutale di lanciafiamme e bombe a mano. La fitta vegetazione permetteva alle truppe americane di avvicinarsi moltissimo alle casematte, da cui venivano però fatti subito oggetto di letale fuoco di mitragliatrici.
Nondimeno, in quanto a potenza di fuoco, la situazione era decisamente favorevole agli Alleati. Le truppe giapponesi erano sin dall’inizio della guerra scarsamente armate ed equipaggiate: si calcola che, per ogni singolo soldato, l’industria giapponese producesse due chili scarsi di equipaggiamento, in ossequio al principio per cui il combattente doveva bastare a sé stesso e vincere le battaglie agendo in base all’antico codice di guerra. Ogni singolo soldato americano, invece, aveva a disposizione dai venti ai quaranta chili di equipaggiamenti e rifornimenti; senza contare che la flotta americana circondava Iwo Jima, impedendo alle truppe nemiche di ricevere rifornimenti.
I soldati giapponesi utilizzavano mitragliatrici fisse di tipo Lewis, e i lunghi fucili a ripetizione Arisaka Modello 38 e Modello 99 che erano di concezione disperatamente obsoleta sia in confronto alle armi americane, sia rispetto agli standard delle altre potenze combattenti: fatti per lunghi tiri di precisione, in conformità con una certa dottrina militare che voleva il soldato capace di arrestare l’avanzata nemica con scariche di fucileria anche a più di un chilometro di distanza; e specificamente ideati per l’utilizzo in campo aperto, per assalti alla baionetta, la versione “modernizzata” delle cariche con la spada degli antichi Samurai.
I Marines americani si avvantaggiavano del volume di fuoco semiautomatico e automatico delle loro armi più adatte a scontri ravvicinati: potevano seminare lo scompiglio in un bunker nemico con i proiettili calibro .45 delle pistole M1911-A1, con i mitra Thompson e M3 Grease Gun o con la carabinetta .30 M1, nonché con armi meno comuni quali il fucile a pompa M1897 o i mitra Reising; si videro anche i Johnson. Ma il protagonista indiscusso della battaglia, forse il migliore fucile di tutta la Seconda guerra mondiale (e sicuramente il miglior semiautomatico!), e presente in enormi quantità nelle mani dei soldati americani, fu lo M1 calibro .30-06, la creatura di John Cantius Garand, che tanta fortuna era destinato ad avere anche per molti anni dopo la fine del conflitto, per la sua diffusione in tutto il mondo (anche presso le nostre Forze Armate), il lungo utilizzo in patria (come fucile per la Guardia Nazionale USA fino a tutti gli anni ʼ60), e i suoi “figli” negli anni ʼ50 (il fucile americano M14 e il nostrano “Fal” BM59).
Con l’adozione del Garand nel 1932, le forze USA erano divenute le prime in tutto il mondo ad adottare un’arma individuale dal funzionamento semiautomatico a presa di gas. Il sistema di funzionamento Garand è connotato da grande semplicità e robustezza; sebbene inizialmente camerato per la innovativa cartuccia calibro .276 Pedersen, il Garand fu adottato in .30-06: il mantenimento in servizio di questa cartuccia, adottata all’inizio del secolo, se da una parte aveva soddisfatto le truppe che ne ammiravano le prestazioni e la potenza, dall’altra aveva permesso agli Stati Uniti, finanziariamente stremati dalla Grande Depressione, di evitare spese aggiuntive insostenibili grazie all’uso di munizioni stoccate in grandi quantità dai tempi della Prima guerra mondiale.
Certo, non tutte le caratteristiche del Garand erano ben viste dai soldati: il fucile può essere ricaricato solo quando è completamente scarico ed espelle la clip di caricamento vuota assieme al bossolo dell’ultimo colpo esploso; la mancata vista dell’emissione della clip esaurita, nelle fasi concitate della battaglia, poteva compromettere tentativi di fuoco, e la stessa espulsione della clip produce un suono caratteristico che in battaglia, specie contro i giapponesi, spingeva il nemico a uscire allo scoperto e attaccare direttamente i malcapitati con l’arma scarica. Senza contare la possibilità, sempre incombente, di schiacciarsi il pollice quando il completo inserimento della lastrina di proiettili all’interno della finestra di caricamento manda l’otturatore automaticamente in chiusura. Ciononostante, il Garand aveva reso le forze americane padrone di un terrificante vantaggio sul campo, che mantennero per tutta la Seconda guerra mondiale e che fecero valere anche durante la battaglia di Iwo Jima.
Il 23 febbraio, quattro giorni dopo lo sbarco, fu raggiunta la cima del monte Suribachi.
Fu issata una piccola bandiera americana, che fu poi sostituita da una più grande anche per permettere al battaglione di tenere l’originale. Fu in quel momento che il fotografo Joe Rosenthal della Associaded Press scattò la fotografia che sarebbe divenuta il simbolo storico della battaglia.
La conquista del monte Suribachi non concluse la battaglia. Iwo Jima fu dichiarata “sicura” solo il 23 marzo, dopo un ultimo contrattacco al secondo campo di volo dell’isola; ma furono necessari altri due mesi per scovare gli ultimi soldati giapponesi nascosti nella giungla e ridotti alla guerriglia. In cinque settimane di battaglia, su un totale di centomila uomini impiegati, gli americani ne avevano persi quasi 7000 e subito 20.000 feriti; mentre dei circa 21.000 soldati giapponesi che dovevano difendere l’isola solo 1083 sopravvissero alla battaglia, e di questi appena 281 furono fatti prigionieri, gli altri preferirono il suicidio al disonore.
La durezza battaglia di Iwo Jima rimandò l’attacco a un’altra importante isola giapponese, Okinawa, la cui invasione sarebbe dovuta iniziare solo due giorni dopo il 19 febbraio, e che fu invece rimandata ad aprile. Ma nessuno ha mai messo in discussione la crucialità della conquista. Fino alla fine della guerra, Iwo Jima fu usata come base aerea per il rifornimento dei bombardieri B-29 in missione sul Giappone. Ancora oggi, Iwo Jima ospita una base navale americana e un memoriale sulla cima del monte Suribachi.