Gentile redazione de l'Espresso,
Anzitutto, voglio scusarmi per il colpevole ritardo con cui vi giunge questa risposta all'articolo “Sempre più armi in mano ai civili, ma (forse) qualcosa sta cambiando”, firmato da Daniele Castellani Perelli il 14 agosto.
Potrei addurre molte giustificazioni; dire che ho avuto dei mesi molto impegnativi sul piano lavorativo (sono anch'io un giornalista), o semplicemente ammettere che non mi ero accorto fino ad oggi della pubblicazione dell'articolo.
La verità, tuttavia, è che ho tentato per lungo, lungo tempo di ignorare l'articolo stesso, e con esso il fatto che una testata come l'Espresso, che è stata per decenni valida fucina di professionisti e baluardo dell'informazione libera ed obiettiva nel nostro Paese, ha abbracciato – con l'abitudine di pubblicare articoli faziosi a ripetizione sull'argomento, quattro solo quest'anno se non vado errato – il più bieco sensazionalismo disarmista.
L'articolo di Daniele Castellani Perelli riesce ad essere, sotto questo punto di vista, addirittura peggiore di quello dal titolo “Far West Italia”, pubblicato a marzo a firma di Fabrizio Gatti. Ma questo è comprensibile: bisogna sempre alzare il tiro e “pompare” l'elemento sensazionalistico a scapito della qualità, quando arriva l'estate e con essa il disinteresse degli italiani verso la stampa e i mezzi d'informazione in generale.
Ovviamente il pregiudizio nei confronti dei legittimi possessori d'armi e dei loro diritti – a praticare la caccia, gli sport di tiro, a difendersi, e perché no, a far da baluardo per la democrazia nei loro rispettivi Paesi! – è palpabile nell'articolo di Perelli come in quello precedente di Fabrizio Gatti e in tutti gli altri che avete pubblicato in tema di armi nel corso degli anni e che io, già in passato, ho avuto l'onere di “smontare”. Non sembrate, tuttavia, aver perso il vizio di fare del mondo delle armi legali un bersaglio, sperando che da “questa parte” della barricata si sia troppo intimiditi per rispondere, schiacciati magari da un'opinione pubblica resa ostile da campagne di disinformazione quali la vostra.
Beh, spiacente di deludervi, ma non abbiamo alcuna paura di smontare pezzo per pezzo le vostre bugie e di mostrare che il Re del Gun Control è nudo. Spesso si sente dire che “gli appassionati d'armi hanno paura del confronto coi dati internazionali”, quindi vediamone alcuni.
Il vostro articolo inizia con la storia dell'arresto, avvenuto a maggio, di un cittadino giapponese trovato in possesso di pistole realizzate con una stampante 3D – e recentemente condannato a due anni di prigione.
Che dire? È vero: il Giappone gode di tassi di criminalità molto bassi, che in tanti attribuiscono anche alle leggi ultra-restrittive sul possesso di armi che nel paese asiatico sono di fatto in vigore da centinaia di anni.
Quello che i sostenitori del Gun Control non rivelano è la passione viscerale che il popolo giapponese ha per le armi da fuoco: oltre a contare il numero più alto al mondo di collezionisti di repliche Soft-Air (giocattoli ad aria compressa, imitazione realistica di armi da fuoco civili e militari, utilizzati per la cosiddetta “guerra simulata”), il Giappone vanta anche il primato per il numero di cittadini che ogni anno si recano in vacanza negli Stati Uniti solo per sparare nei poligoni di tiro locali.
Dato il valore che storicamente i giapponesi danno ad una società ordinata, è difficile pensare che, se avessero accesso alle armi, il tasso di criminalità in Giappone salirebbe; certo è che, a giudicare dai numeri, se l'accesso alle armi in Giappone fosse più liberale, il tasso di armi in mano ai civili in rapporto alla popolazione sarebbe più alto che negli Stati Uniti. L'unico motivo per cui i giapponesi non si attivano per chiedere una liberalizzazione dell'accesso alle armi è da ricercarsi in un'altra peculiarità culturale di tale popolo: la deferenza all'autorità, la tendenza a non mettere mai (o quasi mai) in discussione i provvedimenti e le decisioni di chi governa. Una protesta per ottenere leggi più liberali sulle armi sarebbe probabilmente vista come “anti-giapponese”.
Eppure, il Giappone non è immune dai massacri; l'8 giugno del 2008, ad esempio, Tomohiro Katō piombò col suo furgoncino sulla folla che sciamava tra le vie del quartiere commerciale di Akihabara, a Tokyo, e prima di essere fermato dalla Polizia uccise otto persone e ne ferì altre 18 con uno stiletto e un coltello da cucina.
Ancor più orribile fu il massacro alla scuola elementare Ikeda di Osaka dell'8 giugno 2001: un bambino e sette bambine tra i sette e gli otto anni colpiti a morte a coltellate, ed altri 13 alunni ed un insegnante feriti in modo grave, dal 37enne Mamoru Takuma, ex-bidello della scuola recentemente licenziato per via dei suoi disturbi mentali. Prima ancora c'era stato il massacro della stazione di Shimonoseki, e prima ancora molti altri; più recentemente − il 23 febbraio scorso − ne è stato tentato un altro a Nagoya.
Oltre al Giappone, tutti i paesi asiatici − al di fuori delle Filippine − hanno leggi estremamente restrittive, o del tutto proibizioniste, sul possesso civile di armi. Tra queste l'esempio più lampante è la Repubblica Popolare Cinese, dove da anni tuttavia si susseguono gli attacchi di pazzi armati di coltello a scuole elementari e medie, che hanno mietuto decine di vittime tra morti e feriti.
Inoltre sono in molti, a livello internazionale, ad avere importanti dubbi sui dati che ogni anno la Polizia giapponese rilascia riguardo ai tassi di criminalità.
Fonti di stampa indipendenti, ad esempio, suggeriscono che il Giappone sia un autentico inferno in fatto di crimini sessuali – molestie, stupri – la cui elevatissima incidenza è sotto gli occhi di tutti ma che raramente entrano a far parte delle statistiche perché, per motivi culturali, le donne decidono di non rivolgersi alle autorità, ma soprattutto perché gli ufficiali di Polizia, ossessionati dalla necessità di mantenere bassi i dati sulla criminalità, col loro comportamento scoraggiano le donne che desiderino denunciare di aver subito un'aggressione a sfondo sessuale.
Tale ossessione si manifesta anche nella tendenza, da parte della Polizia giapponese, a chiudere come “suicidio” o “incidente” le indagini sui casi di morti sospette, senza ordinare autopsie, a meno che le prove che si tratti di delitti non siano praticamente innegabili sin da subito.
Il tutto accade in un Paese la cui mafia (la leggendaria Yakuza) è armata fino ai denti di armi da fuoco importate illegalmente, e gode di una sorta di “istituzionalizzazione” nella cultura e nella società locale che le mafie nostrane possono solo sognarsi – tant'è che spesso i proprietari di case da liberare da affittuari morosi si rivolgono proprio alla Yakuza, e non alla Polizia e ai tribunali, per eseguire gli sfratti.
Capirete, insomma, che sono un po' riluttante ad accettare lezioni dal Giappone riguardo a ciò che bisognerebbe fare in fatto di armi in mano ai civili.
Molto interessante è il fatto che prendiate l'Australia come esempio di “riforma” contro il possesso civile di armi: parliamo del medesimo Paese che, dopo la messa al bando delle armi lunghe semi-automatiche a percussione centrale e dei fucili a canna liscia con funzionamento a pompa – che ha fatto seguito alla sparatoria di Port Arthur del 1996 – e alla successiva stretta sulle armi corte “ispirata” dalla sparatoria all'Università di Monash del 2002, ha visto in effetti aumentare il tasso di criminalità: dal 1996 in poi gli omicidi (compresi quelli colposi) sono aumentati da 354 fino a 385 all'anno nel 1999, per poi scendere gradualmente a 261 nel 2010 e risalire a 300 nel 2012; dal 1996 in poi le aggressioni sono aumentate costantemente da 114000 a 175000 all'anno nel 2009; le aggressioni sessuali sono aumentate costantemente da 14500 ad un picco di 19000 all'anno nel 2008 (l'ultima rilevazione attendibile è di 18000 nel 2010); le rapine – 16000 nel 1996 – sono immediatamente schizzate a 21000 l'anno successivo e cresciute fino al 2001 a 26000/anno. Hanno poi subito un trend calante fino ad attestarsi a 14600/anno nel 2010.
È anche il caso di ricordare come il calo abbia più avuto a che fare con cambiamenti sociali ed economici che non con la minore disponibilità di armi, dato che le Gang di criminali violenti in Australia producono, ed immettono sul mercato nero, grandi quantità di armi da fuoco a raffica di produzione artigianale, che arrivano ad costituire quasi il 10% di tutte le armi confiscate dalle Forze dell'Ordine durante le loro attività di repressione e prevenzione.
Nei fatti, lo studio del 2010 di McPhedran, Baker e Singh sulla criminalità in Canada, Australia e Nuova Zelanda – paesi che hanno attuato forme più o meno severe di Gun Control dopo alcune sparatorie – mostra che non ci sono prove che la stretta australiana abbia avuto alcun effetto nel ridurre gli omicidi commessi con armi da fuoco. Il declino più pronunciato si è invece avuto in Nuova Zelanda, che non mantiene un registro di tutte le armi possedute dai suoi cittadini, ma solo dei loro possessori.
Il fattore scatenante della violenza connessa alle armi da fuoco – anche delle cosiddette “stragi della follia” – è più che altro legato alle variabili economiche: i Paesi che hanno vissuto fasi di declino dei crimini violenti hanno contestualmente attraversato fasi di stabilità e crescita, e in quelli ove invece vi sono marcate diseguaglianze nella ridistribuzione della ricchezza ed importanti margini di svantaggio sociale si crea il “brodo primordiale” (alti tassi di disoccupazione, abuso di droghe pesanti, problemi mentali) che è causa della violenza.
Ciò spiega anche l'alto livello di criminalità riscontrabile in due paesi citati nell'articolo –per la precisione Yemen e Serbia – ove, si, sono diffuse le armi, ma anche un'estrema condizione di disagio sociale.
Di più: il 90% degli omicidi commessi con armi da fuoco in Australia – ed oltre l'80% di quelli commessi in Canada – hanno visto l'uso di armi detenute illegalmente da criminali incalliti o comunque da persone che non avrebbero avuto titolo ad acquistarle e detenerle in maniera legale.
Una breve considerazione merita il Canada, che ha applicato una “stretta” sulle armi dopo la sparatoria alla Ècole Polytechnique di Montreal del 1989 – sulla quale sta facendo un'importante marcia indietro il governo Harper, attualmente in carica – data la recente sparatoria a Parliament Hill, nella capitale Ottawa.
La dottoressa Caillin Langmann, che ha studiato i dati relativi agli omicidi in Canada dal 1974 al 2008, ha concluso che non è provata alcuna correlazione tra la loro incidenza e la circolazione di armi da fuoco legalmente detenute nel Paese.
Del resto, Michael Zehaf-Bibeau − il giovane con tendenze islamiste che si è macchiato della sparatoria dello scorso 22 ottobre − ha usato un fucile a leva Winchester calibro .30-30 ottenuto illegalmente: avendo precedenti penali ed essendo indiziato di simpatie con gruppi terroristici, in base alla legge canadese non avrebbe potuto acquistare o possedere legalmente alcuna arma da fuoco.
Ciò non ha salvato la vita del caporale Nathan Cirillo, la sua unica (per fortuna) vittima. In Canada, infatti, la legge non prevede il porto d'armi ad uso difensivo da parte dei privati cittadini. Se le leggi locali fossero state più permissive, ad un pregiudicato e sospetto terrorista come Zehaf-Bibeau non sarebbe stato comunque consentito di acquisire legalmente un'arma, ma la sua tragica avventura si sarebbe potuta concludere molto prima: un cittadino armato avrebbe potuto intercettarlo e fermarlo appena esplosi i primi colpi, e forse il caporale Nathan Cirillo oggi sarebbe ancora vivo e servirebbe ancora il suo Paese.
Meglio non va nel Regno Unito, capofila europeo del Gun Control, che in seguito alla sparatoria di Hungerford mise al bando le armi lunghe semi-automatiche a fuoco centrale e nel 1997, dopo la strage alla scuola elementare scozzese di Dunblane, estese la proibizione a tutte le armi corte.
Da allora la situazione della criminalità nel Regno Unito non fa che peggiorare, come la vostra stessa testata ha candidamente ammesso nell'articolo di Lorenzo Di Pietro del 10 giugno 2014; nonostante la messa al bando delle armi da fuoco, il Regno Unito ha registrato 3105 reati connessi ad esse nel biennio 2010-2011, ed ha adottato la politica giapponese nel redigere le statistiche relative al tasso di criminalità: nel suo ultimo rapporto, il Parlamento britannico ammette candidamente che nel novero dei crimini non vengono più conteggiate rapine ed aggressioni a sfondo sessuale! In effetti dal 1969 ad oggi, con l'implementazione delle prime restrizioni sulle armi, l'abuso criminale delle stesse nel Regno Unito non ha fatto che aumentare, in particolar modo a partire dal 1990, per declinare lentamente solo dal 2006 e restando comunque molto alte rispetto a quando nel Regno Unito per girare con una pistola in tasca per difesa era necessaria solo una marca da bollo da acquistarsi all'ufficio postale.
È indicativo il fatto che le vostre fonti principali siano lo IANSA e lo Small Arms Survey, che chiudono gli occhi sull'aumento della criminalità seguito al disarmo dei cittadini onesti in due dei Paesi citati – Brasile e Sud Africa – e non hanno alcuna vergogna nel sostenere che l'autodifesa non dovrebbe, a loro parere, essere una buona ragione per l'acquisto di armi da parte dei comuni cittadini.
A queste due organizzazioni, capofila del microdisarmo (questo il termine tecnico per il disarmo dei comuni cittadini), bisognerebbe chiedere se la democrazia abbia ancora qualche significato per loro, dato che la decantata “riduzione della platea di potenziali acquirenti d'armi” in Brasile è stata posta in essere dal governo Lula in spregio ad un referendum sull'argomento col quale il popolo brasiliano respinse la proposta di leggi contro le armi col 63,94% di “No”. Le leggi anti-armi in Brasile furono fatte passare, infatti, grazie al "Mensalão", ovvero alla sistematica corruzione – da parte del Partido dos Trabalhadores dello stesso Lula e dell'attuale Presidente brasiliano Dilma Rousseff – di un importante bacino di parlamentari dell'opposizione, non dissimile dall'italica “Operazione Libertà”.
Sempre allo IANSA e allo Small Arms Survey sarebbe interessante chiedere se, tra le cause dell'inefficacia delle severe leggi sulle armi messicane che voi stessi citate nell'articolo, non sia da annoverarsi anche la cosiddetta Operation Fast and Furious, portata avanti per anni da agenzie del Governo Federale degli Stati Uniti sotto gli auspici dell'ora dimissionario Segretario alla Giustizia, Eric Holder.
Con la scusa di “tracciare il flusso di armi” che dal mercato civile USA si riverserebbero negli arsenali dei cartelli della droga messicani, l'ATF – Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, ovvero l'agenzia che dovrebbe impedire il contrabbando di alcolici, tabacco, esplosivi ed armi da fuoco – ha convinto o costretto numerosi cittadini americani a rendersi complici di un'operazione che ha fatto passare centinaia di armi da fuoco in Messico; di tali armi si sono perse le tracce, e possono senz'altro essere considerate causa della morte di un numero imprecisato (ma sicuramente elevatissimo) di onesti messicani, oltre che di almeno una guardia di frontiera statunitense, l'agente Brian Terry.
E non sono pochi a pensare che l'intera operazione sia stata orchestrata per far credere all'opinione pubblica americana che “c'è qualcosa di sbagliato nel modo in cui si vendono nel armi negli USA” e costruire artificiosamente, con l'inganno, un appoggio popolare a leggi restrittive.
Nel frattempo, negli Stati Uniti d'America, le armi legalmente detenute salvano più vite di quante non ne tolgano: secondo i calcoli dell'analista americano indipendente Davi Barker, le sparatorie che si concludono con l'intervento della Polizia mietono, in media, 14,3 vittime; in quelle in cui gli sparatori folli vengono fermati da un cittadino armato, si conta invece una media di sole 2,3 vittime.
Le stesse “stragi della follia”, le sparatorie scolastiche che fanno così tanto clamore sulla stampa statunitense ed internazionale, sono in realtà molto più rare di quanto voi diate ad intendere nella vostra "Timeline" del 14 agosto; così rare, in effetti, che il Servizio Segreto degli Stati Uniti e il Dipartimento dell'Educazione, già nel 2004, segnalavano come la possibilità di morire in una sparatoria a scuola negli USA sia di una su un milione.
Nel 2012, il dottor Maximillian Wachtel, eminente psichiatra, indicava in una su 141.463 le possibilità di una sparatoria in una scuola elementare o media negli Stati Uniti, e in una su 21000 le possibilità di una sparatoria in una scuola superiore, contro una possibilità su 7000, per gli studenti delle medesime scuole, di essere coinvolti o di morire in un incidente d'auto. E nel 2013, secondo l'FBI, gli USA hanno goduto di una diminuzione importante del tasso di criminalità in corrispondenza di un massiccio aumento delle vendite di armi.
L'effetto deterrente della cittadinanza armata contro delinquenti e psicopatici è talmente palese che, secondo un sondaggio pubblicato il 7 novembre dall'istituto Gallup, oltre 6 americani su 10 ritengono che le armi rendano le case più sicure, e non meno sicure e più a rischio d'incidenti come sostiene il fronte anti-armi. Di più: lo scorso 16 luglio, James Craig − Capo della Polizia di Detroit, una delle città d'America col più alto tasso di criminalità − ha pubblicamente ed apertamente attribuito al sempre più diffuso possesso di armi da parte dei cittadini onesti il calo nel numero dei crimini ultimamente registrato nella metropoli.
Sempre nel frattempo, il “commercio di morte” – come lo chiamate voi in un altro tendenzioso articolo del 13 agosto a firma di Antonio Carlucci – dava lavoro a 580mila persone in una qualsiasi tra le 1800 aziende produttrici, 200 realtà distributrici, 14mila dettaglianti ed un numero enorme di piccole e medie imprese del settore armiero dell'Unione Europea, che nel 2012 hanno prodotto 2.256.658 armi da fuoco (1.424.973 sono armi corte), vendute nella sola UE a decine di milioni di cittadini responsabili e rispettosi della legge: 10 milioni sono i soli collezionisti. E di questo beneficia anche l'economia italiana: 668.088 armi prodotte nel 2012, divenute oltre 840mila nel 2013; sputare su oltre 100 imprese e più di 3000 posti di lavoro, e su un comparto in crescita in tempi di recessione e di disoccupazione endemica, dovrebbe essere per voi motivo di vergogna, non di vanto.
Nella stessa Europa a 27, i morti per armi da fuoco ogni anno sono circa mille in media: una cifra che include omicidi premeditati e colposi, incidenti, suicidi e criminali uccisi da complici, Forze dell'Ordine o dalle loro vittime per legittima difesa; un numero inferiore a quello dei morti sul lavoro che ogni anno si registrano solo in Italia!
Le cifre esposte fin quì dovrebbero essere sufficienti a chiunque per capire quantomeno che forse la questione non è così semplice come la mettete voi, se non proprio per arrivare a comprendere, ed accettare, che non solo il mondo degli appassionati di armi non ha paura del confronto, ma soprattutto che il fronte anti-armi globale vive e si ammanta di menzogne per nascondere il fatto che la sua vera natura è quella di fronte per la negazione dei diritti individuali, che diventano diritti collettivi allorquando sono riconosciuti agli individui come parte di una società.
È questa la principale differenza tra chi difende il diritto alle armi e chi, come voi, lo attacca.
Per una serie di ragioni – che vanno da una concezione disneyana di ambientalismo, animalismo, pacifismo e non violenza ad una cecità selettiva sulle vere cause sociali, economiche e culturali della violenza, fino alla pura e semplice mala fede – voi negate quelli che sono diritti fondamentali dell'uomo: il diritto a praticare lo sport che più gli aggradi, financo il diritto di difendersi dalle aggressioni. Arrivate persino a mettere in campo – ancora una volta, in maniera becera ed ignorante – il concetto di “virilità”, ignari del fatto che è sempre più ampia la platea di donne che posseggono ed usano armi da fuoco, sia negli USA che in Europa; perché la violenza sulle donne è una piaga, ma non sia mai che le vittime abbiano accesso agli strumenti più adeguati a difendersi!
Ebbene si, “forse qualcosa sta cambiando”, come scrivete voi: ciò che cambia è che sempre più persone riconoscono il loro diritto a difendersi, e la loro prerogativa di baluardi della democrazia a fronte di una possibile deriva autoritaria degli Stati nazionali o delle organizzazioni sovranazionali, e del conseguente possibile uso dei corpi armati dello Stato – che oggi ci proteggono – come strumenti di repressione del dissenso.
Questo, infatti, e nessun altro, è lo spirito che spinse i Padri Fondatori degli Stati Uniti d'America − illuministi formatisi sui testi che avrebbero poi costituito la base ideologica della Rivoluzione Francese − a redigere il tanto vituperato Secondo Emendamento della Costituzione americana.
Ciò che sta cambiando è che sempre più persone chiedono una maggiore liberalizzazione delle leggi che oggi limitano il loro diritto di girare armati per difendere se' stessi, i loro cari e i loro concittadini dalle aggressioni criminali e dagli atti di follia o di terrorismo.
È ormai sotto gli occhi di tutti, infatti, che tali leggi lasciano indifesi i cittadini che le rispettano, ma non influiscono minimamente sulla possibilità, per chi vive al di fuori della legge stessa, di accedere ad armi di tipo proibito per commettere atti criminali di ogni specie, quasi sempre di una brutalità indicibile.
A titolo di mero esempio: si celebra in questi giorni nel Regno Unito il processo al 26enne Erol Incedal, sospettato di aver preparato un “attacco in stile Mumbai” al cuore di Londra, organizzando una cellula che sarebbe stata armata di fucili d'assalto Kalashnikov, tipologia d'arma da fuoco proibita pressoché dappertutto.
Una pistola – tipologia d'arma proibita nel Regno Unito – era altresì tra le mani di uno dei criminali che, il 22 maggio 2013, decapitarono il soldato Lee Rigby appena fuori dalla sua caserma nel quartiere londinese di Woolwich.
Eppure, dopo l'attacco terroristico del settembre 2013 contro il centro commerciale Westgate di Nairobi, Ronald Kenneth Noble – Segretario Generale dell'INTERPOL – dichiarò molto chiaramente che solo una cittadinanza armata può fornire un baluardo di difesa e reazione immediata contro le cosiddette Active Shooter Situations (questo il termine tecnico per le sparatorie perpetrate da criminali, psicopatici o terroristi).
Finora, nessun governo – neanche quello degli Stati Uniti d'America, ove il diritto a tenere e portare armi è garantito dal Secondo Emendamento della Costituzione – ha voluto dare ascolto alle sue parole; così facendo, i parlamentari e i governanti di tutto il mondo si stanno rendendo complici di un bagno di sangue che rischia di raggiungere proporzioni incommensurabili.
Dalle minacce di gruppi terroristici come Al Shabaab e l'ISIS di colpire i "Soft Targets" in occidente alla tendenza degli sparatori folli americani di scegliere le loro vittime nelle Gun-Free Zones (luoghi pubblici ove ai legittimi possessori d'armi è vietato entrare armati!), è infatti sempre più lampante come disarmare la popolazione crei solo vittime innocenti.
E noi, che difendiamo il diritto alle armi e viviamo sotto il vostro stesso cielo – siamo persone come tutte le altre, nonostante l'immagine di violenti e potenziali stragisti che ci dipingete addosso ad ogni pié sospinto – e che godiamo dei vostri stessi diritti di fronte alle nostre leggi e alle nostre Costituzioni, non accettiamo più di essere considerati alla stregua di Pariah, individui ai margini delle nostre società.
Dopo ogni attentato, ogni sparatoria, ogni autobomba, al mondo viene chiesto di non giudicare 1,6 miliardi di musulmani sulla base delle azioni di pochi estremisti o pazzi; ed è una richiesta sacrosanta.
Oggi, finalmente, milioni di legittimi possessori d'armi da fuoco in Europa, almeno 80 milioni negli Stati Uniti e centinaia di milioni nel resto del mondo non chiedono, ma pretendono lo stesso rispetto.
Per quelli come voi che – per ideologia o solo per vendere qualche copia in più – ci attaccano ogni volta che ne hanno l'occasione; per quelli come Michael Bloomberg e le sue Lobby anti-armi foraggiate a suon di milioni; per le organizzazioni internazionali e le ONG come ONU, UE, IANSA, NISAT o Small Arms Survey, che sognano un monopolio totale (e totalitario!), dello Stato per il possesso e l'uso delle armi, vogliamo che il messaggio sia chiaro: non abbiamo più paura.
Abbiamo i mezzi, e i dati, per contrastare le vostre bugie. E d'ora in poi, nessuna parola, nessuna riga, nessun Byte contro di noi resterà senza risposta.
Cordialmente,
PIERANGELO TENDAS, membro di FIREARMS UNITED