Il nome “San Luigi” sembra strano per unʼarma, ma ancora più stranamente, se non si esamina con attenzione la storia, allʼarma lo diedero le suore missionarie.
Erano tempi duri, in Africa; i Simba erano impazziti e incontenibili nella dissoluzione dell’ex Congo Belga. Abbandonato Kasavubu dagli americani, che in quell’occasione si mantennero nel solco di un’assoluta, totale coerenza nel puntare sull’uomo sbagliato, la guerra civile di tutti contro tutti infuriava nella zona.
In Congo Lumumba, sostenuto dai russi, era pericolante, Mobutu incominciava a crearsi un seguito, la provincia mineraria del Katanga si era ribellata, un esercito non c’era più. Gli ufficiali belgi lasciati a comandare l’esercito, di cui si era voluta la rimozione, stavano rientrando in patria, come i pieds-noirs d’Algeria. Con essi si sgretolava quel minimo di struttura amministrativa, privata di uomini e di competenze. Insomma, caos e tempi durissimi.
Il Congo era passato nelle mani di Mobutu, il Katanga in quelle di Ciombé. La guerra civile continuava e, in mancanza di un esercito strutturato, con ufficiali e soldati ciascuno nel proprio ruolo, si arruolarono mercenari.
Furono questi ultimi a liberare un gruppo di suore missionarie che si trovavano in una situazione molto precaria. Erano armati con il mitra LF57, rustico ed efficace, che fu risolutivo per la missione. E siccome le lettere LF significavano Luigi Franchi, le pie suorine definirono il loro liberatore come San Luigi.
Ce l’avevano i mercenari portoghesi e fu un best seller tra le truppe mercenarie dell’epoca. Robusto, economico, estremamente stabile al tiro, lo LF57 aveva tutte le caratteristiche richieste. Ivi compresa l’affidabilità, a prova di qualunque strapazzo.
In effetti, una delle critiche che si rivolsero, all’epoca, a quest’arma è che il gruppo scatto è all’interno di una struttura chiusa.
La sicura automatica è addirittura all’interno dell’impugnatura metallica e non è possibile intervenirci in caso di guasti. Buona osservazione, se nel corso della lunga vita dell’arma, in condizioni operative disagiate come quelle delle truppe mercenarie, fosse stato riscontrato un solo guasto.
È vero che chi affida a unʼarma la propria vita non risparmia sulla manutenzione, ma non sempre una manutenzione accurata è possibile in condizioni di combattimento. Lʼaffidabilità non deve essere demandata a una minuziosa manutenzione, ma deve essere insita nel progetto.
L’arma, che si dice sia stata progettata da Domenico Salza, appartiene alla seconda generazione della sua categoria. La svolta tra prima e seconda generazione fu determinata dall’adozione di una massa battente avanzata o telescopica, per la maggior parte sovrapposta alla camera di cartuccia e alla canna. Attenzione alla definizione di massa battente telescopica, che non indica semplicemente un otturatore in tre parti scorrenti tra loro a cannocchiale, come quello dell’MP40, la prima arma che ci viene in mente.
Un esempio può essere la PM italiana Armaguerra OG44, che peraltro fu prodotta solo in pochissimi pezzi. Va detto che l’Italia, nel campo delle pistole mitragliatrici, per molto tempo fu avanti a tutti gli altri Paesi, a partire dalla Villar Perosa fino all’FNA.
Vi dice qualcosa il funzionamento a otturatore chiuso? O con un sistema di chiusura diverso da quello inerziale? Avete sentito parlare di PM tedesche che lo adottano?
Certo, tra quelle più recenti, ma ricordiamoci che l’FNA funzionava a chiusura labile ritardata già nel 1943, e sparava a otturatore chiuso al pari del MAB 38A.
Della seconda generazione sono esponenti, oltre all’arma di cui ci stiamo occupando, anche altre pistole mitragliatrici ben note. Una di esse, la Beretta M12, è piuttosto nota e fu sviluppata contemporaneamente allʼUZI. Vi furono anche contatti, tra la Beretta e Uziel Gal, ma non sfociarono in una collaborazione perché gli studi di entrambi erano giunti allo stesso livello di sviluppo.
La soluzione Franchi consiste in un otturatore grosso modo a forma di “L”, in cui il lato lungo, a otturatore chiuso, sta sopra la canna. Ma andiamo per ordine.
L’arma è costruita in lamiera stampata e saldata. Il calcio è ripiegabile ed è privo di un fermo positivo: si arresta nella posizione voluta per il contrasto, nello snodo, di una sporgenza con uno scavo. Le mire sono molto semplici, la tacca è saldata al fusto mentre il mirino è stampato. La lunga nervatura che percorre la parte superiore dell’arma si deforma in volata fino ad assumere la forma del mirino. La carcassa, una sorta di parallelepipedo stampato in due parti saldate tra loro, ha due nervature di irrigidimento su ciascun lato e numerose fessure per il raffreddamento in corrispondenza della canna. Sul lato destro le nervature sono interrotte dalla finestra di espulsione, generosamente dimensionata e ottimamente realizzata. Le nervature servono anche a ricevere gli incombusti e lo sporco, lasciando che la parte in movimento possa scorrere tranquillamente anche dopo aver sparato molto e con manutenzione “da campo”, di quelle che si fanno quando c’è tempo e non occorre recuperare sonno. Come ogni arma affidabile, il Franchi LF57 ha ridottissime necessità di manutenzione.
Sporgenti quella sorta di parallelepipedo stampato si notano, dalla volata al calcio, la ghiera della canna, la manetta d’armamento, il bocchettone del caricatore e l’impugnatura a pistola con la leva della sicura automatica. Null’altro.
Osservando più attentamente la volata si nota un’imbutitura che accoglie l’estremità anteriore del guidamolla, intorno al quale giace la molla di recupero. Il guidamolla fa anche da guida superiore dell’otturatore.
Lo smontaggio dell’arma è estremamente facile e veloce. Per prima cosa si tira verso di sé il pulsante zigrinato che sta sullo snodo del calcio e si sfila quest’ultimo verso l’alto. A questo punto, guardando all’interno della carcassa, appare l’estremità posteriore del guidamolla, zigrinata. Vi si appoggia il pollice, si preme leggermente per svincolarla dal blocco anteriore e si fa ruotare finché sia possibile sfilarla insieme alla molla di recupero. Inclinando la canna verso l’alto l’otturatore si sfila da solo. La mossa successiva è svitare la boccola che trattiene la canna. È zigrinata nella parte posteriore e si appoggia a un pulsante molleggiato che ne impedisce lo sviamento involontario, ma viene via con le mani, insieme alla canna alla quale è unita. La scritta “Cogne” sulla canna di questo esemplare contraddistingue l’adozione di un acciaio trilegato, verosimilmente uno dei primi impieghi del 38NCD4 in luogo del consueto C40. Cinquant’anni fa, non era cosa comune. L’acciaio al carbonio, per la verità, sarebbe andato benissimo, ma avrebbe costretto l’azienda a fare una canna più spessa e quindi più pesante.
L’ultimo atto consiste nello sfilare la manetta di armamento. Basta così, non ci sono altre parti smontabili. L’intera operazione si è svolta in pochissimo tempo: con un minimo di pratica, che potrebbe consistere nell’eseguire tre volte l’operazione e prendere il tempo sulla quarta, lo smontaggio avviene in venti secondi.
L’otturatore manifesta subito la sua peculiarità. Massiccio e pesante, presenta un foro che lo attraversa per tutta la sua lunghezza. La parte corta porta l’estrattore, il percussore fisso e il dente di scatto. Il pezzo è macchinato dal pieno e scorre nel fusto guidato, come si è detto, non solo dalle pareti dello scatolato ma anche alla lunga asta guidamolla. È bloccato nella sua corsa anteriore subito dopo l’inizio di essa, a meno che sia premuta la sicura all’impugnatura. L’arma spara a otturatore aperto, il che vuol dire che in caso di fuoco prolungato non può avvenire la spontanea accensione della cartuccia camerata.
Per quanto riguarda l’adozione della chiusura labile su un’arma in 9mm Parabellum, occorre tener conto non solo del peso dell’otturatore, ma anche dell’inerzia da esso acquisita quando va in chiusura. La massa battente di pressoché tutte le pistole mitragliatrici è sovradimensionata. Ma una costruzione più leggera aumenterebbe di molto la velocità di raffica peggiorando sensibilmente la controllabilità.
Il caricatore è bifilare con presentazione bifilare delle cartucce, come in molte PM e in ben poche pistole, che invece adottano la presentazione monofilare.
Per sparare il San Luigi, dopo aver inserito il caricatore, si arma l’otturatore e si è pronti. È meglio evitare di premere la leva della sicura mentre si arma l’otturatore, perché se la manetta d’armamento sfuggisse quando esso è sufficientemente arretrato, la sicura provvederebbe ad arrestarlo.
Lo sparo mette in evidenza una cadenza di tiro lenta. I colpi sono percepibili uno a uno ed è possibile fare raffiche di tre colpi senza problemi. L’arma è controllabilissima e precisa, non impenna ed è, ad avviso di chi scrive, la miglior arma del dopoguerra tra quelle che sparano a otturatore aperto.
L’arma non ebbe la fortuna che avrebbe meritato. Modernissima per l’epoca, semplice a costruirsi, poco costosa, aveva un’affidabilità tale da farne quasi un oggetto di culto per le truppe mercenarie, finché la diffusione dell’Uzi in qualche misura la soppiantò. Ma l’apprezzamento da parte di truppe combattenti, che agivano in teatri particolari e con una logistica sbrigativa, la dice lunga sulle sue qualità.
Le nocque la mancata adozione da parte dell’Italia, se si escludono pochi esemplari che, guarda caso, finirono a Corpi speciali. Quei Corpi che avevano autonomia di scelta. Una modesta adozione fu fatta anche dall’esercito portoghese.
Quasi dimenticato, a volte confuso con le Walther MPL/MPK che vagamente gli assomigliano, il San Luigi resta un eccellente esempio di capacità progettuale e costruttiva, che purtroppo dovette reggere il peso immotivato di una mancata adozione.