La miccia

Armi a miccia
Immagine tratta da Viollet Le Duc: l’arma è munita di lungo teniere, ma è ancora sorretta stringendola sotto l’ascella e l’accensione è ancora con miccia manuale (disegno tratto dal libro Meccanismi di Accensione, Cesare Calamandrei, Editoriale Olimpia 2003)
Armi a miccia
Bombardella manesca del XVIII sec. di origine europea

L’origine della polvere da sparo resta avvolta nel mistero. Ci limiteremo quindi a riferire che le richieste di brevetto di Bertold Schwartz devono essere respinte in favore di Bacone, che peraltro parrebbe aver rubato l’idea a Marcus Graecus. Un personaggio famoso, al punto che in seguito alle ultime ricerche pare che non sia mai esistito. Resta da dire che Bacone descrive il suo famoso anagramma (lieru vopo vir can utri) nel 1267, mentre Alberto Magno descrive l’uso di cannoni durante l’assedio di Siviglia del 1247, vent’anni prima. Per quanto riguarda le armi note, il cannone di Ainberg è del 1301, la Duille (o Dulle) Grete di Gand risale al 1313, mentre una bombardella e un pot-de-fer furono disegnati nel 1326 per illustrare il De Officiis Regum di Walter de Milemete, conservato a Oxford. Povero Schwartz, che già si era rallegrato perché gli si era attribuita dell’invenzione. Si era fatto avanti, ma la fortuna non gli arrise. “Qual vien dinanzi e qual di retro il prende” come scrisse il Divino Poeta. Se non lo disse, l’avrà pensato.

In Italia, il primo documento in assoluto sull’uso di armi da fuoco è la provvisione del Comune di Firenze dell’11 febbraio 1326, riportata dall’Angelucci e coeva del codice oxoniano. Anch’essa si riferiva a cannoni. Quel che è certo è che con l’avvento delle armi da fuoco cambiò il modo di combattere. La prima menzione di armi da fuoco portatili, nella “Cronaca perugina de Graziani all’anno 1364” dice che: “ …el nostro comune de Peroscia facesse fare cinquecento bombarde una spanna lunghe che le portavano su in mano … e passavano ogni armatura”. 

Armi a miccia
Gruppo di soldati svedesi dell’armata di Bernardo di Sassonia - Weimar nella guerra dei Trent’anni (tavola tratta dal libro 1618 – 1648  La guerra dei 30 anni di Luca Stefano Cristini,  editore IsoMedia 2007 disponibile presso Tuttostoria)

 Cinquecento bombardelle significa che non si trattava di qualche singola arma e che uno o più gruppi consistenti di fanti avevano l’arma da fuoco. Ci si era quindi già abituati alla nuova invenzione, superando la fase che prevedeva o grandissimi cannoni o tubi di ferro assicurati a un bastone. Erano le bombardelle, di dimensioni ben maggiori di quelle perugine. Il bastone si appoggiava al terreno e l’arma si puntava a occhio, certi comunque che avrebbe fatto danni. Naturalmente la bombardella da sé non poteva fare nulla se la polvere non era accesa.

Il primo sistema di accensione fu una brace avvicinata al focone, come vediamo nel codice di Milemete. Ben presto tuttavia quel sistema fu rimpiazzato dal buttafuoco, un ferro rovente che si avvicinava al focone. 

Il sistema è rappresentato a fresco nel chiostro del convento di Lecceto, nel 1343: l’opera è molto rovinata ma si vedono chiaramente il cannone, il cannoniere e il fuoco di grossi ceppi. 

Armi a miccia
Un fucile di foggia tipicamente militare: da notare la presenza del grilletto al posto della leva tipica di questa tipologia di arma

 Rimase in uso per parecchio tempo: nel 1409 un resoconto del tesoriere del Duca di Borgogna riporta il pagamento “de l’ouvrage d’avoir repercié le pertuis de la bombarde... le quel pertuis estoit estoupé d’une broiche de fer qu’estoit rompé dedans” cioè del lavoro per avere riaperto il focone di una bombarda, ostruito da una spranga di ferro che vi si era rotta dentro. Ancora di buttafuoco si tratta, quando un codice francese d’artiglieria del 1430 suggerisce di pulire bene il focone e riempirlo di polvere fine. 

Armi a miccia
Armi a miccia
Fiaschetta militare per la polvere: scarno ed essenziale, risalente al periodo della Guerra dei Trentʼanni
Armi a miccia
Fiaschetta da caccia, di qualità e fattura eccelse

Però, se il buttafuoco andava bene per i cannoni, quale sistema potevano usare gli abitanti di Perugia per l’innesco delle loro “bombarde una spanna lunghe”? Il ferro arroventato è ingombrante e un fuoco di grossi ceppi non può essere facilmente trasportato. Quindi il sistema usato fu verosimilmente la miccia. Il focone, naturalmente, doveva essere riempito di polverino. La miccia da illuminazione, per le lampade a olio, era conosciuta da ben oltre mille anni, ma non si poteva evidentemente usare per l’accensione. 

Per contro, una miccia più grande, tenuta in mano, avrebbe consentito di portare con sé il fuoco. Non poteva tuttavia essere sufficientemente lunga da consentire l’accensione del cannone standone a rispettosa distanza, per cui nelle artiglierie si continuò con l’uso del buttafuoco. Nel corso del XV secolo non vi furono altre novità nel sistema di accensione, ma vi fu una sostanziale evoluzione dell’arma. Nell’ultimo quarto del secolo, in Francia, troviamo che il canon à main, detto anche coleuvrine, viene chiamato Hacquebuse. Si incominciava quindi a sagomare un teniere che il puntamento dell’arcobuso simile a quello di una balestra e ben presto ci si rese conto della necessità di unire la miccia all’arma. Nel frattempo, la miccia da semirigida era diventata flessibile, così come la conosciamo oggi. 

Le prime piastre a miccia erano semplicissime. Un chiodo faceva da perno e una specie di altalena recava la miccia accesa a un’estremità. Tirando l’altra estremità, la miccia si sarebbe abbassata fino a mettersi in contatto con lo scodellino. Già, lo scodellino. Che viene prima della miccia, come si può dimostrare dall’esistenza di armi che hanno lo scodellino e non possono avere un portamiccia, essendo completamente in ferro e non recando traccia di alcunché utile a trattenere un serpe.  

Ben presto, con l’avvento del serpe, lo scodellino cambiò posizione, portandosi sul lato della canna e munendosi di un coperchio che doveva impedire che il vento portasse via la polvere d’innesco.  

Armi a miccia

L’apertura del copriscodellino sarà resa automatica dal solito Leonardo, che lo collegò al serpe con una biella. Ma il ritrovato non ebbe successo, anche se forse rende meno misteriosa l’origine del focile. Il disegno vinciano è attribuito dagli esperti al 1490, non molto antecedente rispetto all’invenzione della ruota, sempre a opera dello stesso Leonardo.

Del serpe “ad altalena” non abbiamo tracce materiali, nel senso che nessun artifizio è giunto fino a noi. Ma ne possiamo dedurre l’esistenza da tracce lasciate su arcaiche bocche da fuoco che non possono corrispondere a null’altro. Il suo inconveniente era che poteva essere avvicinato involontariamente al focone.  

Armi a miccia
Altra vista dellʼacciarino francese

Si provvide con una molla che lo teneva discosto. Una lunga leva, posta sotto la cassa, quando era premuta avvicinava l’estremità della miccia allo scodellino. Ben presto la leva fu sostituita da un grilletto, che consentiva di tenere più ferma l’arma al momento dello sparo. Le ultime evoluzioni del sistema furono i moschetti da tiro – al Museo Nazionale d’Artiglieria ne è conservato uno con stecher a cinque leve – e il serpe da botta. Con questo termine si indica un sistema in cui la pressione su un bottone o su un grilletto provoca lo sgancio del serpe, che si abbatte come farebbe il cane di un’arma moderna. Il sistema fu sicuramente diffuso all’inizio del Seicento, quando il Giappone iniziò a prendere in considerazione l’uso delle armi da fuoco. Il fucile giapponese, dopo la chiusura agli stranieri, restò invariato senza conoscere i progressi dell’Occidente e il suo meccanismo di sparo, mantenuto fino alla metà dell’Ottocento, era un serpe da botta. La miccia era semplice, economica, affidabile e sopravvisse alle nuove invenzioni, tanto alla ruota quanto alla pietra. 

Armi a miccia
Fucile da caccia di gran pregio a miccia, a canna ottagonale cal. 12mm, presumibilmente costruito nell’area fra Koenigsberg e il Baltico
Armi a miccia
Un fucile a miccia giapponese della metà dell’Ottocento: lo scodellino era semiimpermeabile, la forma del grilletto è ancora arcaica e rimanda ai primi serpi da botta e la gioia di bocca si rifà ad archetipi cinquecenteschi

Ancora nel 1642, i ricchi borghesi che si fecero ritrarre da Rembrandt nella Ronda di Notte, sono ritratti nell’atto di versare la polvere, da un bossolo, nella canna di un moschetto a miccia. In campo militare la miccia ebbe vita lunghissima: benché l’uso della batteria a Snaphaunce sia riportato nelle Fiandre nel 1543, quasi certamente da parte dei lombardi di Ferrante Gonzaga, nella prima parte del Cinquecento incominciò a farsi strada, in Spagna, il moschetto, cioè il successore dell’archibugio. Il moschetto era l’arma più potente che un singolo soldato potesse usare, e si sparava appoggiandolo a una forcella. Rimasto in uso fino alla fine del Seicento, il sistema a miccia, tornato ad armi di dimensioni più umane, ebbe una parte significativa nella storia europea e non solo. Il più importante reggimento di moschettieri fu creato da Francesco I nel 1530, l’anno dopo la battaglia di Pavia che gli insegnò la lezione. Dopo aver avuto una parte significativa nella guerra civile inglese e nella Guerra del Trent’anni, il sistema a miccia fu la prima arma da fuoco impiegata nella conquista del Nuovo Mondo, e non solo nell’America Meridionale. Nel 1609, Henry Hudson ne sperimentò i difetti quando fu assalito di sorpresa dagli Indiani d’America mentre aveva ancora le micce spente. 

Armi a miccia
Fucile a miccia “da donna”, di origine indiana

Un fatto storico

L’efficacia delle armi da fuoco a miccia fu dolorosamente sperimentata da Francesco I alla battaglia di Pavia. L’epoca – il Cinquecento – era quella dei grandi mutamenti nell’arte militare, in bilico tra tradizioni ostentate e armi modernissime. Fu l’ultimo secolo della Cavalleria. Era l’arma dei nobili, che la difendevano a parole e la combattevano in battaglia con strumenti decisamente plebei, ancorché efficaci. È proprio vero che quando si è in ambasce bisogna appoggiarsi con fermezza ai principi che si propugnano. Finiranno per cedere.

Il fante era in scatola. Contrariamente a quanto alcuni disinformati hanno sostenuto, la pezza difensiva era indossata costantemente, era molto più leggera di quanto si pensasse e si portava tutto il giorno. Con i pidocchi, perché a quell’epoca li avevano tutti. 

Contro questi fanti in scatola si muoveva la cavalleria pesante, armata di lancia e mazza. Le linee di cavalleria erano molto strette: si diceva che un guanto lanciato tra i cavalieri non avrebbe toccato terra. Un impatto micidiale, che da qualche tempo però non era più così efficace, visto che si scontrava con l’ultima invenzione tattica svizzera: il quadrato di picche. 

Armi a miccia
Volata dell’arma a tre canne: al centro di queste, la bacchetta di caricamento

Si trattava di un istrice contro il quale la cavalleria era costretta a rompere i ranghi, lasciando spazio ai fanti leggeri, armati di spada e scudo, che si inserivano negli spazi e iniziavano a ferire cavalli e a tagliar gole.

Contro il quadrato di picche interviene l’artiglieria, che è poco cavalleresca ma molto efficace. Potendo, sarebbe stata disprezzata. Solo che dell’artiglieria c’era bisogno, e nessun nobile sarebbe mai diventato artigliere. Fu così che un capitano d’artiglieria, senza beni di fortuna e senza nobiltà, poté diventare uomo d’armi, comandare una sua compagnia, diventare nobile e comperarsi un feudo. Ma questa è un’altra storia. 

Armi a miccia
Fucile “Teppo” giapponese a miccia, del secondo quarto del XIX secolo

Il contraltare individuale dell’artiglieria era il petrinale. Si appoggiava al petto di corazza e si sparava nel mucchio: qualcosa si riusciva a colpire sempre. Fu comunque per quella invenzione, l’arma da fuoco, che nel 1525 Francesco I perse la battaglia di Pavia. Dopo che l’artiglieria ebbe preso d’infilata il quadrato di picche, la cavalleria iniziò ad avanzare. Sembrava fatta: alla cavalleria non si sarebbero più potuti opporre ostacoli. Ma gli avversari avevano gli archibugi, e tirarono nel mucchio alla distanza di due picche. La disciplina militare doveva essere ferrea, e la plebe non molto inepta: pensate al fante che si trova di fronte cinquecento cavalieri vestiti di ferro, che avanzano verso di lui, e resta fermo ad aspettare finché giungono a dieci metri.

Non sappiamo se fu Francesco I a spaventarsi e far allargare i ranghi o se ciò fu solo effetto della salva a fuoco, ma la sorte della battaglia fu ben presto segnata, insieme con la fine della cavalleria e la morte del Sieur de La Palisse, proprio quello che un quart d’heure avant sa mort / il était ancore en vie. 

Armi a miccia
Armi a miccia
Armi a miccia

Meccanismi di accensione

Cesare Calamandrei, nel suo libro Meccanismi di Accensione (Editoriale Olimpia, 2003) ci ha offerto una completa panoramica dell’evoluzione subita nei secoli dai sistemi d’innesco per armi da fuoco, dalle origini delle prime armi ad avancarica e fino ad arrivare ai sistemi a retrocarica.

Come in tutte le altre sezioni del libro, quella dedicata alle armi a miccia conduce il lettore attraverso un percorso conoscitivo a cavallo fra tecnica specialistica e autentico senso della storia, consentendo così all’esperto come anche al semplice appassionato di passare con disinvoltura dai primi esempi noti di sistemi di accensione non manuali (sebbene ancora non a miccia) della metà del Quattrocento, agli ultimi impieghi noti di armi a miccia, anche in combattimento, documentati nel Giappone degli ultimi Samurai della metà dell’Ottocento.

Il libro contiene unicamente illustrazioni in bianconero, relativamente poche delle quali di carattere fotografico: ma è proprio la grande abbondanza di disegni e copie di raffigurazioni d’epoca che rende l’opera particolarmente chiara nella sua rappresentazione tecnica dei fondamentali sistemi di accensione impiegati nei primi quattro secoli di storia delle armi da fuoco, comprese quelle a miccia.

 

Armi a miccia
Arma a miccia con baionetta e spada, di origine indiana