Oggi più che mai al cacciatore viene chiesto un atteggiamento che potremmo ormai definire professionale.
Sempre più spesso, infatti, salvo sporadici episodi, il cacciatore assume il ruolo del custode della fauna selvatica, una risorsa rinnovabile molto più preziosa di quanto ancora non appaia.
Quando noi tutti - e specialmente il consumatore finale - capiremo che la carne di selvaggina è un bene sano e biologico (per usare un termine che va di moda), allora potremo dire d’aver compiuto un altro passo e accorciato la distanza che ci separa dal progresso, quello vero.
Infatti, nonostante grandi chef si siano esposti in prima persona e pareri di numerosi medici veterinari abbiano confermato la salubrità della carne di un selvatico abbattuto, la commerciabilità della stessa rimane un tabù in vaste aree della Penisola. A prescindere da questo, comunque, anche il solo consumo domestico richiede un corretto trattamento della spoglia del selvatico abbattuto, il quale non esula dall’etica venatoria ed anzi ne è la diretta conseguenza. Anche perché il modo migliore per rendere omaggio all’ungulato cacciato è proprio quello di saperne trattare le carni, cucinarle al meglio ed assaporarle con amici e parenti.
La carne di selvaggina
Per quanto riguarda l’ottimizzazione qualitativa della carne ci sono alcuni parametri fisici e ambientali che devono essere tenuti in considerazione, sia prima che dopo lo sparo.
Innanzitutto la tipologia di caccia impiegata influisce in maniera preponderante sulla qualità della carne e ciò è dovuto principalmente al fatto che gli animali stressati producono una grande quantità di acido lattico che si accumula nel tessuto muscolare e ne compromette inevitabilmente la qualità.
Non solo, anche la tipologia di munizione utilizzata e il punto d’impatto del proiettile sono fattori che non vanno mai trascurati. Il colpo dev’essere il più preciso possibile, così da risultare letale in un lasso di tempo che si avvicini il più possibile all’immediatezza e in maniera da non contaminare le carni, ad esempio, con del materiale organico ricco di batteri prima contenuto nel rumine.
Eviscerazione ungulati
Ad animale abbattuto, invece, è sempre buona norma rapportarsi con la temperatura ambientale e ovviamente con il tempo necessario al recupero del selvatico.
Dopo lo sparo la temperatura dell’animale si aggira tra i 35° e i 40°, mentre il suo raffreddamento è lento e complicato a causa dell’isolamento termico che questi animali hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione.
Compito del buon cacciatore è quindi quello di raggiungere in fretta l’animale, magari facendo una valutazione preventiva sull’orografia del terreno, e favorire i processi di raffreddamento eviscerandolo nel minor tempo possibile.
Ai mesi estivi si pone rimedio recandosi velocemente in un luogo adibito alla refrigerazione dove vi si può far dimorare la spoglia del selvatico.
In merito all’eviscerazione delle grossa selvaggina va detto che si tratta di una pratica che richiede una discreta esperienza, pena la contaminazione delle carni e la conseguente scarsa salubrità delle stesse.
L’intervento di solito viene eseguito sul posto con l’ausilio di un altro cacciatore, in un luogo che dev’essere comodo per entrambi e con gli strumenti idonei. È importante che almeno il cacciatore che manipola l’animale servendosi del coltello indossi un paio di guanti in lattice e presti la massima attenzione, magari aiutandosi con le dita della mano che non regge la lama, a non incidere le viscere.
Il taglio dovrà essere netto e ampio quanto basta per poter asportare gli organi sia della cavità addominale che di quella intestinale. Quindi, è buona norma asciugare il sangue con un rotolo di carta evitando quando possibile di usare l’acqua, la quale risulta un buon veicolo per i batteri.
A questo punto il capo non dovrebbe mai essere rinchiuso in contenitori (sacchi di nylon) che ne compromettono la traspirazione, anche se in alcuni casi l’uso dello zaino risulta necessario.