In Sardegna l’habitat destinato all’esercizio venatorio, è costituito per la maggior parte da vegetazione spontanea definita genericamente come macchia mediterranea i cui arbusti e frutti spesso aromatici come il mirto, il lentischio, lo scisto ecc. ma anche di piante come il corbezzolo, il carrubo ed altri, rappresentano un concentrato di vitamine e quindi un sostentamento basilare per la fauna selvatica e tra questi il cinghiale, animale onnivoro per eccellenza.
L’alimentazione del cinghiale si arricchisce poi di lumache, vermi, tuberi, roditori, piccole e grandi carogne di animali la cui origine sempre totalmente naturale, completa la disponibilità di cibo e determina a seconda delle stagioni e soprattutto delle piogge, il numero della prole e la loro crescita come adulti e futuri riproduttori.
Mi riferisco alle zone del Sulcis Iglesiente, laddove la graduale e purtroppo inarrestabile perdita di presenza rurale e con essa dei territori adibiti al pascolo degli animali in prevalenza capre e pecore, ha fortemente inciso sullo sviluppo di alcune specie selvatiche. Per alcune di esse come ad esempio il cinghiale, la crescente disponibilità di cibo, di macchia mediterranea non praticata da greggi ecc. è risultata fondamentale sia per lo sviluppo in termini numerici, che di mole intesa come peso medio dell’animale. Se poi a questo associamo l’utilizzo dei fuoristrada, di armi più performanti e di altri congegni elettronici come trasmittenti per comunicare e collari satellitari per la localizzazione degli ausiliari, allora è più facile comprendere perché oggi anche in Sardegna la caccia al cinghiale abbia preso il sopravvento sulle altre forme di prelievo venatorio ( pernice, lepre, coniglio ) in quanto calamita l’interesse di tanti cacciatori ed in particolare dei giovani, garantendo loro maggiori soddisfazioni e risultati altrimenti non possibili.
Il dilemma è sempre il solito, ossia si stava meglio quando si stava peggio, oppure è meglio oggi con tanta disponibilità di prede, ma forse con meno romanticismo e rispetto delle tradizioni?
Per quanto mi riguarda, preferivo i tempi passati ma sono del tutto consapevole che la mia è una posizione frutto dell’esperienza personale, probabilmente anacronistica come spesso accade per chi ne ha viste tante dopo quasi 50 anni di licenze.
Negli anni ‘50 le squadre del paese (Buggerru circa 1.700 abitanti ) erano solo due e questo sia perché i cacciatori erano pochi, sia perché la tradizione marinara prevaleva su quella agro pastorale che da sempre è stata la culla della caccia. Già all’epoca, si poteva intravedere una divergenza di impostazione delle cacciate ma anche dell’organizzazione in generale tra quella tradizionale (squadra Pisu/Pani ) e quella, diciamo, più emancipata ( squadra Melis/Cardella/Esu ).
Anche se divise per motivi di territorio e anche per impostazione nei metodi di braccata, le due squadre erano unite da un denominatore comune ossia, il profondo rispetto del territorio e la correttezza direi quasi un patto d’onore innanzitutto tra i due Capo Caccia e poi anche tra i vari componenti delle diverse squadre, legati spesso tra loro da importanti vincoli di parentela.
La braccata in sardo detta “Cassa Manna o Truba”, aveva regole rigide e inderogabili pena l’espulsione dalla squadra direi come un cartellino rosso se paragonata ad una partita di calcio. Le poste non venivano assegnate a rotazione o con il sistema dell’estrazione bensì per meriti e a totale discrezione del Capo caccia il quale agiva in totale autonomia magari consultandosi solo se ritenuto opportuno, con i vecchi e saggi cacciatori, oppure con il Capo Canaio.
Alla fine della stagione erano in pochi e sempre gli stessi a prendere tanti cinghiali e questo, creava un malcontento generalizzato soprattutto tra i validi giovani ai quali veniva preclusa la possibilità di mettere in evidenza le loro capacità venatorie.
L’importante era di fare carniere e di rientrare al ritrovo, con un bel pezzo di carne. I cinghiali venivano tassativamente “abbruschiati” ossia non scuoiati ma privati delle setole tramite fiamma prodotta da arbusti di macchia, seguendo un rito che aveva del propiziatorio. Non si buttava NIENTE dalla testa alle zampette e perfino le interiora pulite accuratamente, diventavano poi un eccellente pasto se cucinate con olive, rosmarino e una generosa porzione di pancetta o lardo.
Spesso le interiora o le altre parti nobili venivano consumate la settimana successiva presso il capanno di caccia, creando così quella forma di socializzazione tipica di queste allegre comitive. La squadra poteva contare anche sul supporto di alcuni appassionati fiancheggiatori, i quali pur privi di capacità venatorie, erano noti per la loro maestria in cucina ma anche per la loro contagiosa giovialità. Un ricordo particolare della mia infanzia va al signor Tano Broccia, persona con il quale ho condiviso bisbocce post caccia, arricchite da ricostruzioni quasi teatrale delle azioni di caccia soprattutto nel rappresentare clamorose padelle, il tutto amplificato da generose dosi di Cannonau o da Carignano del Sulcis.
Nelle gerarchie della squadra erano previsti dei ruoli particolari, come quello del responsabile che si occupava di fare le parti in maniera giusta e proporzionata sia in qualità che in quantità (si doveva stare attenti a che una parte non avesse troppo osso rispetto alla carne o che non ci fossero pezzi danneggiati dalla fucilata). Il tutto, comunque, dietro la supervisione attenta, scrupolosa e assolutamente imparziale del Capo Caccia.
Nella divisione delle parti, pertanto, alla stessa stregua di un cacciatore, venivano considerati anche i due/tre cani cosiddetti maestri (cai maistru) in quanto ritenuti fondamentali per la buona riuscita della cacciata e lo scovo/cattura dei cinghiali. Per i ragazzotti alle loro prime esperienze quindi senza fucile e portati a caccia solo per strillare a squarciagola (spesso inopportunamente), era previsto di concedere solo qualche parte non nobile sempre che la cacciata avesse prodotto risultati importanti altrimenti avrebbero dovuto aspettare di diventare veri cacciatori per poi seguire le varie fasi di crescita e consacrazione all’interno della squadra.
Non c’erano cani specifici della squadra bensì ogni canaio, disponeva di più cani di sua esclusiva proprietà e questo era di stimolo per poi cercare di essere su meri (il padrone) di un cane maestro con tutti i benefici del caso sia essi materiali (una parte di carne in più), ma anche per prestigio e di vanto personale nel suo gruppo ma anche nel paese.
Fino ai primi anni ’80 le mute erano costituite esclusivamente da cani meticci. Soggetti forti di temperamento, rustici e tenaci nella seguita tanto è che spesso venivano recuperati nei giorni successivi alla braccata, lasciando nel punto di sciolta, un giacchetto o qualsiasi cosa del proprietario che ne associasse l’usta famigliare e quindi che lo tenesse nei paraggi fino al recupero definitivo. La perfetta sintonia con pastori e agricoltori rendeva più facile questi recuperi frutto delle informazioni e del tam tam tra territorio a cacciatori.
Nei primi anni ’80, e di questo ne vado fiero, portai al paese un cane completamente diverso sia nella morfologia che nell’azione di caccia. Si trattava di un segugio istriano di nome Arno, regalatomi dal mio amico Alberto Dandolo il quale a sua volta lo aveva preso dai suoi parenti dalmati (all’epoca Jugoslavia ).
Corpo snello, chiaro di mantello, grande inseguitore ma anche docile e di compagnia. E’ stato il capostipite di tante cucciolate sempre e tutte ben riuscite. Dopo l’abbattimento del cinghiale alle poste, Arno rientrava sempre da noi canai, con la testa macchiata di sangue e questo era il segnale in codice dell’avvenuta cattura della preda.
Ora le squadre del paese sono diventate tante anzi direi troppe. Tutti vogliono avere visibilità paesana. In tanti sono refrattari alle regole fino a sfiorare l’anarchia e questo non è assolutamente possibile anzi sarebbe assai deleterio laddove i rischi latenti in questa forma di caccia, possono essere ridotti o eliminati solo con una organizzazione che definirei con metodo militare.
L’antagonismo sfocia in contrasti anche incomprensibili. I cani sono sempre più selezionati come razza e accessoriati di collari satellitari ecc. Spesso si possono raggiungere zone impervie utilizzando le jeep fuoristrada e ormai le vecchie tradizioni di braccata, hanno lasciato il posto a nuovi ma per me discutibili metodi di caccia sicuramente più redditizi.
Questo è il presente e il tempo non si può fermare. Con la giusta riflessione è comunque possibile capire cosa è bene cambiare per evitare che questa splendida passione non resti poi emarginata ad un solo tipo di caccia (al cinghiale) perché la Sardegna era ed è ben altro. La preda regina è sempre stata la pernice che ora ha perso interesse venatorio non certo per colpa del cacciatore ma di norme regionali strampalate che di scientifico hanno ben poco.
Riprendiamoci le nostre tradizioni consapevoli che il ruolo del cacciatore attuale e futuro sarà fondamentale se non determinante. Non ci può essere una caccia prossima senza la gestione del territorio, il che significa immissioni controllate, sostentamento della selvaggina soprattutto in periodi di siccità ma anche rispetto della stessa nei metodi di prelievo.
In generale, proviamo a lasciare ai nostri figli e nipoti un mondo migliore, e con esso anche la possibilità di poter continuare liberamente ad esercitare questa nostra passione che esiste e accompagna l’uomo fin dalle sue origini.
Il pericolo è reale quindi diamoci tutti da fare indistintamente.
“L’esperienza di ciascuno è un valore per tutti “
(Gerard de Nerval)
Viva la caccia, viva i cacciatori e viva la Sardegna!