Il primo caso di PSA in Italia e i numeri attuali
Il primo caso di Peste suina africana è arrivato in Italia agli inizi del 2021. È stato infatti trovato, per la prima volta agli inizi del 2021, il virus della PSA in un cinghiale abbattuto nella zona tra il Piemonte e la Liguria ma il flagello della peste suina africana circola in Europa già dal 2014. Fin da subito il virus è stato percepito per ciò che esattamente è e ciò che potrebbe diventare in futuro; un problema con potenziali conseguenze economiche di portata enorme sulla filiera produttiva delle carni suine e dei derivati di questa.
Gli scienziati ed i biologi hanno immediatamente notato con quanta facilità il virus potrebbe trasmettersi ai suini domestici, allevati per la produzione di carni. Una diffusione incontrollata del virus trai suini domestici potrebbe portare alla necessità di adottare misure estreme, come l’abbattimento controllato di diverse migliaia di capi, con conseguenze in termini monetari, per gli allevatori, davvero pesanti.
Nelle zone più colpite sono stati impiegati strumenti tra i più disparati, che hanno fatto si che il problema venisse almeno arginato.
Ad oggi i comuni coinvolti nella zona rossa, individuata a cavallo tra il Piemonte e la Liguria, sono 58. I casi totali individuati ad oggi sono 333. Gli ultimi casi, registrati dall’Istituto Zooprofilattico di Torino, provengono tutti dalla zona della provincia di Alessandria – due a Morbello e tre a Grondona, uno a Borghetto Borbera – dalla provincia di Savona e di Genova. il totale è di 228 unità in Piemonte e 105 in Liguria.
Il ruolo del cacciatore e della caccia di selezione
Appare subito chiaro, anche sulla base dei numeri che abbiamo riportato, che la gestione del problema della PSA necessità di una gestione mossa da spirito scientifico e non ideologico, come spesso e volentieri alcune fazioni di animalisti dell’ultima ora ed alcuni politici pensano.
Basta pensare come moltissimi Paesi UE ed Extra UE hanno bloccato da tempo l’importazione di carni suine provenienti dall’Italia, con una perdita per il settore stimata in ben 20 milioni di euro. Una cifra che, se non si decide di intervenire in modo consapevole e mirato, è destinata solo ad aumentare.
Di fronte a questo possibile e nefasto scenario, appare ovvio che il semplice porre barriere di contenimento nelle zone più colpite, per quanto si sia rivelata una misura con ottimi risultati in termini di contenimento, appare comunque una soluzione ancora troppo lontana da una risoluzione efficace e definitiva del problema.
Il ruolo del cacciatore e della caccia di selezione, a questo punto, appare, ancora una volta, come uno strumento di cui le amministrazioni regionali non possono fare a meno. L’impiego del cacciatore e della caccia di selezione devono essere lo strumento primario di una gestione scientifica di un problema tanto complesso. È infatti necessario operare nel senso della gestione prima di tutto dei selvatici affinché poi non si debba intervenire sulla filiera produttiva delle carni suine eventualmente contaminate dal virus. Senza fare troppi giri di parole, è chiaro che l’abbattimento di, ad esempio, 100 cinghiali infetti non avrà ripercussioni economiche come le potrebbe avere, sulle tasche del piccolo allevatore, quando l’amministrazione regionale lo obbligherà ad abbattere cento dei suoi maiali infettati con la peste suina africana. il rischio di fallimenti di piccole e medie imprese a conduzione familiare, portatrici di una tradizione gastronomica locale di indubbio valore, è dietro l’angolo.
Il ruolo del cacciatore consentirebbe di ridurre il numero dei cinghiali nelle zone più colpite, tenendoli lontani dalle città e soprattutto dalle zone con grandi allevamenti di suini domestici.
L’esempio della Regione Lombardia
Nella Regione Lombardia e nella zona del Pavese, la caccia fin da subito è stata utilizzata come strumento di eradicazione del virus e di gestione generale del problema. La Regione infatti ha intrapreso politiche volte ad incentivare e a garantire l’impiego dei cacciatori nell’abbattimento mirato di capi di cinghiale nella zona che risulta pesantemente colpita dalla PSA.
La scelta deriva da alcuni rilevamenti fatti nella zona, in cui si è scoperto come alcuni esemplari infetti abbiano trovato il modo di sconfinare, col rischio di vedere il virus arrivare verso la pianura padana, zona notoriamente vocata all’allevamento dei suini domestici. Si parla di allevamenti con un numero di suini pari a circa cinque milioni e l’eventuale presenza del virus nella zona avrebbe conseguenze che definire disastrose è un eufemismo.
Ecco qui che l’attività venatoria si offre come strumento principe per la gestione del problema e per scongiurare uno sconfinamento del virus in zone pericolose. Gli abbattimenti autorizzati e incentivati dalla Regione Lombardia sono infatti derivanti da analisi di natura biologica, zoologica, matematica e scientifica in generale. Sulla base di presupposti del genere, quindi, le sterili polemiche del mondo animalista, che per l’ideologia scanserebbero anche l’evidenza del metodo scientifico e matematico, lasciano il tempo che trovano.
Vincenzo Caputo nominato nuovo commissario per l’emergenza PSA
Il Dott. Vincenzo Caputo, direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Umbria e marche, è stato nominato dal nuovo Governo come commissario straordinario per la gestione della PSA.
Le parole del direttore sono state immediatamente ispirate da tanta consapevolezza e da tanta responsabilità.
“il mondo della caccia […] può rappresentare uno straordinario strumento di bioregolazione, con la necessità di un coordinamento dalla parte pubblica con delle regole d’ingaggio molto chiare”.
Il commissario uscente Ferrari, invece, risponde in modo netto a chi abbia mosso nei suoi confronti aspre critiche sulla sua presunta incapacità di gestire il problema, lamentando il mancato impiego e la mancata disposizione di abbattimenti massicci. Ferrari si difende, asserendo di aver seguito in modo preciso le direttive degli esperti, secondo i quali, nelle zone più colpite, non si poteva andare a caccia.
Test antigenici per i cinghiali
L’Università di Torino ha collaudato dei test antigenici da mettere a disposizione dei cacciatori che abbattono cinghiali. L’impiego dei test antigenici, in grado di rilevare la presenza del virus nei capi abbattuti, consentirebbe di non mandare sprecate tutte le preziose carni derivanti dall’abbattimento dei cinghiali, che, nelle zone a rischio, vengono inceneriti.
In Liguria, su proposta dell’On. Alessandro Bozzano, il Consiglio Regionale ha approvato all’unanimità l’impiego di questi test nel territorio della regione, che ad oggi è uno dei più colpiti.
In tal modo, verificando la presenza del virus nei cinghiali abbattuti, si consentirebbe al cacciatore di consumare le carni di quei selvatici ancora sani e non infettati.