Le nuove generazioni di cacciatori devono accontentarsi di immaginare soltanto le emozioni provate davanti al frullo di una brigata di starne attraverso lo scintillio degli occhi di qualche anziano narratore. I più fortunati hanno ancora qualche nonno che davanti a un camino acceso parla di albe ormai lontane e del lavoro estenuante di un cane di cui non ricordano esattamente la razza o la genealogia, ma era sicuramente formidabile.
Già, non importa perché le starne c’erano e lui le trovava! Racconti di campagne silenziose e assolate in cui si procedeva a fatica tra i calanchi e le colline per poter arrivare ad avere l’occasione di un tiro mai scontato… Sveglie antelucane per poter cogliere il canto che faceva eco dalla sommità di un’altura …
In Italia la starna era un simbolo della cultura rurale, storicamente diffusa dall’Arco Alpino fino all’estremo Sud, Isole escluse, con una distribuzione omogenea che seguiva quella delle colture cerealicole.
Fino alla metà del secolo scorso, la gestione dei poderi era tipicamente familiare caratterizzata da metodi tradizionali e un estremo frazionamento delle proprietà con siepi e cespugli che offrivano ricovero e possibilità di nidificare alle brigate.
Dagli anni '50 l’impoverimento dell’habitat, l’abbandono delle coltivazioni nelle zone pedemontane, l’inquinamento dovuto ai pesticidi e non ultima una pressione venatoria indiscriminata, hanno contribuito alla scomparsa del più nobile volatore delle nostre colline.
Oggi ormai non si può parlare di caccia alla starna senza sottintendere capi di selvaggina, nel migliore dei casi bene ambientati e riprodottisi in natura nelle aziende a gestione controllata, oppure soggetti provenienti da allevamenti e liberati annualmente dai vari ATC.
Attualmente i problemi legati alla reintroduzione non sono infatti legati all’allevamento che avviene con successo come per altre specie, tipo il fagiano, ma all’ambientamento in terreno libero.
Non essendo un animale rustico come il colchico, la starna non riesce a sopravvivere isolata, ha bisogno di mantenere alcune gerarchie all’interno del branco e, la possibilità di spaziare in ambienti più vasti.
Quasi sempre si allontana dalle zone di immissione, per poi nella maggior parte dei casi svanire nel nulla, vittima dello sbandamento e dei predatori.
Le massicce immissioni effettuate in passato hanno avuto spesso l’effetto contrario di inquinamento dei ceppi genetici autoctoni rimasti. Nella maggior parte dei casi infatti il solito unico obbiettivo sembra essere la quantità di individui “pronta caccia” e non la qualità dei riproduttori liberati.
Per diminuire la mortalità a cui vanno incontro gli esemplari rilasciati sarebbe opportuno un adattamento già in allevamento a un’alimentazione naturale il più possibile simile a quella degli ambienti in cui verranno immessi.
È chiaro che allevare in questo modo non sarebbe remunerativo dal punto di vista economico, questi impianti andrebbero quindi curati da parte delle sezioni dei cacciatori e dagli ATC in quanto tutti gli sforzi sarebbero volti a una corretta organizzazione e gestione del territorio.
La creazione di aree alimentari idonee equivarrebbe inoltre a un controllo dei predatori e delle attività agricole, includendo un divieto del prelievo venatorio fino all’attestamento accertato di popolazioni stabili censite in buona densità.
Sacrifici certo, da tutti i punti di vista per i cacciatori, un impegno serio, senza il quale non avrebbe senso neanche affrontare questo genere di discorso.
Si tratta di decidere in modo diretto e inequivocabile, se a un male conclamato si voglia tentare di porre un rimedio, con una cura efficace e a tratti anche dolorosa, oppure ci si voglia accontentare dei soliti palliativi che altro non fanno se non consolare o peggio illudere.
Quanto ai mezzi finanziari, bastano sicuramente quelli che annualmente si impiegano per sterili ripopolamenti che fanno la felicità soprattutto di volpi e rapaci.
Negli areali collinari e appenninici, non è parere di chi scrive, ma frutto di studi e osservazioni di addetti in materia, la reintroduzione della starna, non soltanto è auspicabile, ma possibile attraverso una gestione tecnica e paziente.
Recuperare almeno in parte questo straordinario capitale darebbe anche nuovo valore alla cinofilia a esso indiscutibilmente legata.
La starna rappresenta infatti il selvatico ideale per qualsiasi cane da ferma. Definendo un cane starnista si includono tutte le qualità che un valido soggetto da caccia dovrebbe possedere.
Nell’approccio alla starna infatti è necessario che un cane abbia un misto di decisa prepotenza e di cauta attenzione, un equilibrio assoluto che regoli un’avidità necessaria al reperimento di questi selvatici negli spazi aperti, ma che allo stesso tempo non ne provochi un frullo anticipato. Una cerca ampia quindi, curata con intelligenza, negli ambienti più vari.
La starna non vive infatti soltanto nelle stoppie o nei medicai. Lo specialista troppo spesso giudicato negli ampi spazi brulli delle gare, andrebbe in realtà misurato se avessimo selvatici veri, in ambienti molto diversi e accidentati.
Boschetti e calanchi, colline e incolti in cui oltre alla ferma e alla velocità verrebbero premiati il collegamento con il cacciatore, il recupero spesso da effettuare in luoghi proibitivi, una fantasia e una malizia in generale che lo esalterebbero come autentico ausiliare da caccia.
Passando ora da questi bevi spunti di riflessione “gestionale” alla caccia pratica, partirei da una necessaria premessa; la caccia degna di chiamarsi tale alla starna, inizia a ottobre inoltrato.
Già, perché evitando di prendere in considerazione tutti gli esemplari non sopravvissuti alle prime ore di apertura a settembre, i selvatici che hanno dimostrato maggiore scaltrezza, sono quelli ora rimasti ad abitare luoghi e insidie perfettamente noti.
In questo mese gli animali pigri che ancora non avevano terminato la muta delle penne e compivano brevi voli restano soltanto un ricordo e si può davvero dare inizio alle “ostilità”. Tutte le abitudini sembrano cambiare improvvisamente, le rimesse sono quasi sempre inarrivabili o lunghissime, i frulli leggeri e silenziosi al minimo rumore sospetto.
Davanti a selvatici di questo genere, soprattutto se si caccia in ambienti vasti e collinari, per avere qualche chance in più non resta che alzarsi prima del giorno e sperare nella fortuna di potersi orientare al canto mattutino, molto più probabile a stagione avanzata e con le prime gelate invernali, piuttosto che in autunno.
Se Diana sorriderà ai suoi seguaci sarà opportuno non muoversi subito e aspettare un po’ che le grigie siano intente nella pastura come loro abitudine di primo mattino, in modo da poterle sorprendere sicuramente più tranquille e meno propense al frullo improvviso a lunghe distanze.
Saper dominare l’ansia mantenendo il massimo silenzio in questi momenti è una delle cose più difficili, ma il giorno che avanza quasi sicuramente ci darà ragione.
Dal momento dello scioglimento dei nostri cani l’azione dovrà procedere in perfetta sincronia, per questo è fondamentale un ausiliare ben collegato con cui non ci sia bisogno di particolari richiami per procedere nella classica manovra di “accerchiamento”, proseguendo in direzioni quasi opposte verso la sommità della collina dove la brigata è radunata al pascolo.
Procedendo infatti dai due versanti o comunque con un ampio raggio di anticipo rispetto al nostro cane, si avranno maggiori possibilità di vederlo cadere in ferma nella nostra direzione e di conseguenza anche le probabilità di un tiro utile aumenteranno considerevolmente.
Inutile sottolineare quanto una ferma solida sia necessaria a consentirci un lento accostamento aspettando di vedere l’esplosione della brigata nell’aria.
Già, la brigata, proprio questo il punto di forza e debolezza insieme della starna.
Il suo carattere gregario la rende inafferrabile, quasi impenetrabile fino al momento in cui l’esperienza di cane e cacciatore riescono, se ci riescono, a sciogliere l’incantesimo.
Non appena il branco si rompe infatti, solitamente in seguito a diverse alzate, quelle che erano le difese maggiori, come la pedina o il frullo leggero cambiano improvvisamente e gli animali isolati si affidano piuttosto all’immobilità nelle loro rimesse ritenute più sicure.
In queste circostanze è possibile sentire il canto anche di giorno con cui gli uccelli si richiamano cercando di ricongiungersi.
Un cacciatore e un cane allenati e affiatati in questo momento possono imbattersi in più incontri sicuramente più abbordabili, in cui i selvatici reggono la ferma molto di più rispetto a quelli delle prime luci.
È doveroso ricordare che mentre in tempi passati il momento della rottura del branco era certamente quello più atteso, che coincideva spesso con la fine di gran parte della brigata, oggi dovrebbe essere quello più idoneo per godere ancora di qualche raro momento di vera cinofilia, da gustare a pieno rispettando i limiti di prelievo. Quelle lasciate andare saranno nuove starne per il nostro cane e non starne perse.
Il modus operandi ad ampio giro rispetto al proprio cane è riferito ovviamente alla caccia in ambienti collinari o comunque sia in cui ci sia la presenza di vari livelli di terreno in cui far procedere l’ausiliare sempre a monte rispetto a noi, perché nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto di buon mattino, è in quei punti più alti che saranno rimessi i selvatici pronti ad involarsi verso valle.
Negli ambienti pedemontani o nelle pianure al contrario, in modo inversamente proporzionale all’ampiezza dei terreni dovrà accorciarsi sensibilmente la cerca dei cani.
Intendiamoci, il fondo sarà una caratteristica imprescindibile anche in questi ambienti, ma per far sì che i selvatici non scivolino via di pedina o frullino lunghi negli spazi aperti in cui saremo sicuramente più visibili e percettibili, la cerca dovrà comunque mantenere un raggio controllabile per concederci l’occasione del tiro.
Venendo al fucile più idoneo per questo tipo di caccia, sicuramente, oltre che per motivi tecnici e balistici, anche per il notevole peso della tradizione a cui è legata, direi che i classici basculanti la fanno assolutamente da padroni nella caccia alla starna.
Oltre al maggiore brandeggio e velocità di puntamento, offrono la possibilità di scelta della cartuccia da impiegare in relazione alla distanza del tiro. Per i giusti limiti di prelievo imposti inoltre, anche l’utilità del colpo in più perde gran parte del suo scopo.
Per quanto riguarda le canne, sia per doppiette che sovrapposti, consiglierei lunghezze rispettabili o standard, ma non troppo ridotte, in quanto pur trattandosi di caccia con cane da ferma, sappiamo bene come la starna, specie se smaliziata sia capace di frulli inaspettati, quanto repentini verso valle in cui le distanze diventano subito proibitive.
Una tipica lunghezza di 71 cm con strozzature di 4 e 2 stelle può andare benissimo, per scendere al massimo fino a 68 cm con strozzatura 3 e 2 stelle.
Le cartucce generalmente usate sono di cariche medie, per un animale comunque da considerarsi alquanto coriaceo; 34 o 36 grammi di piombo del numero 8 o 7 in prima canna e 6 o anche 5 in seconda, soprattutto nel periodo tardo autunnale.