A qualcuno potrà sembrare strano immaginare le magnifiche pernici sarde (Alectoris barbara) in un contesto prettamente marino laddove le pendici scoscese di montagne scistose, coperte da una rigogliosa macchia mediterranea, immergono le loro radici in un mare cristallino dalle mille tonalità di blu e di verde, arricchito da tramonti unici che solo questa meravigliosa terra è in grado di offrire a chi la ama veramente.
Ebbene io sono tra i fortunati che non solo le hanno viste e riviste ma anche provate a cacciare. Dico provate perché già riuscire a praticare queste zone fortemente impervie che lambiscono il mare, rappresenta di per sé una notevole difficoltà e direi anche un evidente rischio che soli in pochi si sentono di poter affrontare.
Parliamo di animali particolarmente intelligenti e quindi consapevoli che la loro sopravvivenza è legata anche alla scelta dell’habitat in cui vivono e al loro modo di sapersi destreggiare nelle varie fasi della giornata che vanno dal luogo in cui dormono, alle zone di pastura e a quelle di abbeveraggio.
Quindi non è un caso la scelta di terreni così difficili, in quanto la presenza di rocce metamorfiche a grana grossa, determinano uno sfaldamento delle stesse, caratterizzano la fascia di territorio a ridosso delle scogliere. Il maestrale che da queste parti soffia potente, ma anche le piogge, fanno il resto dell’opera concentrando le scaglie scistose in scivoli precari per il cacciatore. L’instabilità di queste rocce fa sì che diventino anche dei campanelli di allarme per le pernici in caso si presentassero predatori ostili nei paraggi e tra questi l’uomo stesso.
Solo i temerari riescono, o meglio riuscivano, a fare carniere con qualche pernice “marinara” e tra questi quello che riusciva meglio di tutti laddove altri nemmeno ci provavano era Fiorenzo Mura, l’amico fraterno di mio padre Antonio.
La sua era una vera e propria tattica e sotto la sua abile regia ed esclusivamente nelle ore in cui il primo chiarore della giornata prende il posto della luna che va a riposare, noi ragazzotti di primo pelo (io, Gabriele e Antonello) facevamo le poste dopo aver individuato con perizia e scrupolo, una piazzola meno precaria delle altre e comunque una posizione più consona e stabile per avere l’opportunità di tirare una o al massimo due fucilate a testa se tutto andava come previsto.
Il vero lavoro veniva svolto dal meticcio Polin, un cane massiccio e brioso che potrei associare per similitudine ad un bracco pointer, giusto per dargli una definizione morfologica anche se all’epoca le razze non erano ancora definite e gli accoppiamenti avvenivano più che altro seguendo criteri personali che andavano dalle attitudini alla mole, al colore del mantello, alla voce nel caso dei cani da seguita ecc.
Fiorenzo lo scioglieva sul terreno solo dopo aver calcolato il tempo a noi necessario a raggiungere le piazzole di tiro, e il tutto in assoluto e religioso silenzio, pena l’involo anticipato delle tremende pernici sempre all’erta ad ogni minimo rumore di voci e di auto, particolari che se trascurati, ci avrebbero lasciati con un palmo di naso, vanificando sforzi fisici e aspettative ben diverse.
In tutto l’azione poteva durare al massimo 10/15 minuti, ma l’emozione di vedere tra il lusco e il brusco improvvisamente materializzate in volo d’ala planato le pernici scovate da Polin era un’emozione indescrivibile che serberò per sempre nel mio cuore di uomo e nei ricordi di cacciatore.
Come cartucce tassativamente il piombo 8 cartuccia Standard della Winchester, e se la fortuna ci assisteva e due o tre pernici venivano abbattute, il loro recupero allora diventava qualcosa di assolutamente proibitivo perché le traiettorie erano tali che spesso cadevano proprio in acqua. In questi casi, solo le doti natatorie dei compagni di caccia potevano compensare la paura che ho sempre avuto per l’acqua, ma direi anche la scarsa propensione al riporto dell’ottimo Polin dal quale non si poteva pretendere altro se non quello di scovare in men che non si dica il branchetto delle pernici e di farle partire in un crepitio d’ali accompagnato dal loro classico verso.
La regola era sempre la stessa, aspettare con pazienza perché nel gruppo c’era sempre la pernice “mandrona” ossia ritardataria. Quella che partiva dopo le altre e che spesso ti beffava perché eravamo disuniti magari a ricaricare o a commentare le fucilate o altro.
Molto simile a ciò che accade con la caccia alla lepre dove avanzando a rastrello sulle stoppie o negli smorganati, uno dei tre deve sempre tenersi leggermente indietro per poter tirare alla furba orecchiona che abbandona il covo solo dopo il passaggio e i cacciatori, schizzando come una saetta nel senso contrario, forte delle sue potenti leve che gli fanno acquistare velocità in men che non si dica.
Ebbene sì, ammetto di avere una natura esclusivamente montanara nonostante sia nato con il rischio di cadere dalla culla al mare e che mare direi. Ma io se non trovo una ginestra alla quale attaccarmi qualora perdessi l’equilibrio come diceva un mio amico amiatino, mi sentirei un uomo perso quasi un Linus senza la sua coperta di lana o il Commissario Maigret senza la sua proverbiale pipa.
Di contro, quasi tutti i cacciatori del mio paese avevano la duplice propensione, cosa che in genere accomuna tanti seguaci di Diana di ogni luogo, una Dea tradita a favore del Dio Nettuno o meglio forse solo un po’ trascurata ma limitatamente ai periodi di caccia chiusa, impersonando metaforicamente la mitologica e immaginaria figura bifronte del pescacciatore.
La nostra è una zona a vocazione mineraria e per tutti questi poveri cristi che lavoravano nelle viscere della terra senza una certezza del domani, sia la caccia che la pesca rappresentavano oltre a una fonte aggiuntiva di sostentamento dal punto di vista alimentare, anche un modo sano ritemprarsi e spurgare le polveri accumulate nei loro polmoni quindi, una sorta di rigenerazione di indubbio beneficio salutare.
Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che Fiorenzo rappresentasse il top di questa figura a duplice propensione. Da una parte la caccia che innescava in lui la voglia incontenibile di confrontarsi con prede molto scaltre e difficili da incarnierare (prevalentemente pernici, lepri e conigli) dall’altra, un mare che non sempre è sinonimo di calma e tranquillità anzi… anch’esso influenzato soprattutto dal tempo e dai periodi più o meno propizi.
Per lui tutto era caccia. Le prede con le piume o con le squame non faceva differenza; solo che le prime erano ridotte ma davano emozioni quasi surreali mentre i pesci, dalla spigola o lupo come viene chiamato qui da noi fino ad arrivare alle aragoste, passando per polpi, dentici e orate, rappresentavano il bisogno per una generazione, di integrare il magro salario che le società straniere davano in cambio di uno sfruttamento eccessivo che oggi non sarebbe ammissibile per norme e coscienza.
Il cerchio economico della zona o di questo angolo di paradiso come lo chiamo io, si chiudeva con gli altri due anelli mancanti che erano il pastore figura imprescindibile di questa terra e l’agricoltore. Tra loro i ruoli erano spesso invertiti o complementari. Il baratto rappresentava il massimo della interazione tra queste figure e veniva fatto con semplici regole di valutazione economica delle merci scambiate. Il denaro all’epoca era ben poco ma in queste occasioni non ne girava per niente.
Saltuariamente e per variare la propria alimentazione, il pescatore cedeva parte del suo pescato in cambio di formaggio, agnelli porchetti o capretti per le festività comandate, così come l’ortolano scambiava i frutti del suo lavoro, con pesce carni ecc.
Non tutto era necessariamente allineato e non di rado capitava che l’agnello venisse dato a Pasqua mentre il pesce o gli ortaggi in un altro periodo. Le persone si fidavano l’una delle altre e le ristrettezze economiche semmai univano e non dividevano come invece accade oggi.
Una economia povera ma genuina improntata in quello che amo definire lo spirito del mutuo soccorso laddove svezzare un bimbo dal latte materno, significava affidarsi all’amico pastore. Questo, individuava la sua migliore capra e quotidianamente dopo averne constatato la piena salute della bestia, ne mungeva il fresco latte dalle qualità eccelse cedendolo con un gesto pregno più di fratellanza che di venale interesse.
I tempi sono profondamente cambiati, le pernici marinare se anche ci sono nessuno le può cacciare in quanto la fascia costiera è interdetta alla attività venatoria. Fare il pescatore è diventato un mestiere come un altro quindi soggetto a mille regole e a tanti obblighi dal fermo biologico ed altro. I pastori rimasti si possono contare sulle dita di una mano e vanno avanti anche loro tra mille difficoltà e mille sacrifici in un mondo dove la sofisticazione di ciò che mangiamo è all’ordine del giorno.
L’ortolano resiste ancora ma anche per lui è solo questione di tempo. Eppure, una volta le famiglie vivevano e proliferavano in salute e armonia. Ma non sarà che il mondo di oggi con il suo consumismo ed il suo falso benessere sia solo una apparente maschera che cela l’autodistruzione?
Non può essere così. Non mi arrendo all’idea che mio nipote o quello di un qualsiasi altro amico non possa sentire ancora il canto della pernice capobranco che annuncia l’albeggiare imminente, che non possano più pescare le aguglie con la lampara e prendere gronchi e murene ai filaccioni innescati a sarde, che non possano più mangiare una ricotta morbida e cremosa appena prodotta dalla lavorazione del siero caldo, che non possano più mettere in tavola frutta e verdura di stagione magari con qualche imperfezione ma dai sapori genuini e senza pesticidi o altre schifezze.
È solo un brutto sogno che non diventerà incubo. La realtà è che l’uomo se messo alle corde trova sempre la forza di reagire riappropriandosi delle sue libertà che sono anche quelle di poter godere dei frutti della terra e del mare mettendo al centro di tutto il benessere del corpo e dell’anima senza se e senza ma.
“Puoi svegliarti molto presto all’alba, ma il tuo destino si è svegliato mezz’ora prima di te"
(Proverbio Africano )
VIVA LA CACCIA E VIVA I CACCIATORI