Come ci hanno insegnato a scuola e da ciò che possiamo leggere dai testi scientifici, Il Mondo in generale e la Natura in particolare sono un insieme di ecosistemi il cui ruolo di ciascun componente, che sia esso di origine vegetale oppure animale, è perfettamente stabilito, combinato e integrato con il contesto, affinché la natura e i suoi cicli facciano il loro corso e svolgano la loro funzione in armoniosa sintonia, come è stato fin dall’origine del pianeta Terra.
Partendo da questo semplice e banale concetto, ciò che nella realtà assume un'importanza determinante e che spesso altera gli equilibri, è la presenza dell’uomo con l’insieme delle sue attività di vita e di lavoro ad esso correlate.
Le abitudini alimentari che in alcune situazioni sfociano in sprechi, lo stile di vita non più spartano, le produzioni artigianali e industriali sempre più orientate al mero consumismo, sono notevolmente cambiate negli ultimi 50 anni. Le ripercussioni di tutti questi eccessi, hanno procurato un impatto negativo con la natura e ciò deve far riflettere l’uomo su come agire al meglio, sia per prevenire alcuni fenomeni che possono essere ritenuti anomali, sia per pianificare mediante adeguati strumenti, azioni opportune con lo scopo principale di perseguire un “riequilibrio naturale” consono alle specifiche criticità, preservando in tal modo, il benessere primario dell’umanità.
Fatta questa doverosa premessa e contestualizzando il concetto nel mondo venatorio, è lampante che alcuni provvedimenti non possono essere assunti da persone che non vivono la natura, semplicemente perché non hanno le giuste conoscenze e competenze. Tantomeno, da individui che approcciano sistematicamente e strumentalmente alle questioni, non per risolverle veramente bensì con altre mire, che vanno dagli interessi corporativi, a quelli politici per poi finire in quel limbo tipicamente italico che tende a mettere la polvere sotto il tappeto così che nessuno se ne accorge fintanto che la polvere diventa una montagnola e allora è troppo tardi o i danni sono fatti.
Il concetto di fauna nociva
Nel caso specifico, mi riferisco a quello che può essere definito il concetto di fauna “nociva” ossia di tutte quelle specie (cacciabili e non cacciabili) le quali per svariati motivi e tra questi il loro numero o densità di popolazione, come direbbero quelli più esperti di me sentiti innumerevoli volte nei vari corsi di formazione, alterano in un qualche modo gli equilibri naturali, procurando disagi alla vita quotidiana delle persone oppure arrecando danno ad altre specie animali a loro subordinate nella catena alimentare.
Purtroppo e spesso, nei ranghi di questi Enti preposti alla gestione della fauna in generale, si annidano folte schiere di personaggi anticaccia i quali assumono posizioni e decisioni in prevalenza frutto di valutazioni ideologiche anziché come sarebbe opportuno e maggiormente efficace, utilizzare moderni strumenti atti a monitorare fenomeni (anche solo potenzialmente critici) con lo scopo primario di individuare e adottare i sistemi di contenimento e di riequilibrio maggiormente appropriati.
La grancassa viene poi assicurata da mezzi di informazione e/o dai social schierati e pronti a propinare all’opinione pubblica, una narrazione dei fatti dove per assurdo, l’uccisione di un uomo da parte di un’orsa, secondo alcuni è frutto di un errore umano la cui unica colpa è stata solo quella di fare una passeggiata nei boschi intorno casa sua.
Sono le stesse persone che si indignano per l’uccisione di un lupo (episodio comunque deprecabile in mancanza di una motivazione valida) ma che nel contempo, non si rammaricano minimamente se questo lupo ha ucciso 20/30 pecore, ne ha traumatizzate altrettante fino a renderle improduttive sotto il profilo del latte o addirittura sterili per il futuro. Al povero allevatore che vede sfumare un guadagno, di per sé misero rispetto ai sacrifici di una stagione intera, non ci pensa nessuno e gli indennizzi, laddove siano previsti, arrivano l’anno del poi, e mai in giusta proporzione al reale danno subito.
Avrei voluto non soffermarmi su questi aspetti anche perché il vero vantaggio che si dà a queste persone è proprio quello di parlarne, mentre invece andrebbero ignorate. Invece, anche sforzandomi non sono riuscito a reprimere l’impulso di dire come sempre la mia in quanto fermamente convinto, che alcuni fenomeni odierni, sono proprio da attribuire a scelte errate e/o a decisioni non assunte nei tempi e nei modi più consoni (la famosa polvere sotto il tappeto).
Dopo questa lunga premessa, veniamo al nocciolo principale dell’argomento, ossia le condizioni che a mio parere si manifestano affinché un animale selvatico, da elemento naturale in equilibrio con l’ecosistema che lo circonda, diventi poi nocivo e quindi da tenere sotto stretta sorveglianza.
Le successive azioni dovrebbero essere di individuazione delle cause che hanno procurato questo disequilibrio. A seguire, le azioni di contenimento adeguate quindi mirate, contando sul contributo di tutti quelli che hanno competenze sulla questione quindi, anche con il valido e competente supporto di tutto il mondo venatorio.
Iniziamo con un excursus sulle specie che nell’ultimo decennio sono per svariati motivi diventati nocivi e/o quelle che lo saranno negli anni a venire qualora si dovesse proseguire con provvedimenti non consoni.
Parliamo del cinghiale: una specie in rapida espansione il cui sviluppo è stato determinato dalla enorme disponibilità alimentare rappresentata soprattutto dai rifiuti, quindi da un allargamento del loro consueto areale, che porta l’irsuto animale, a spingersi fino a zone urbane anche di grandi città come nel caso di Roma, ma in generale a ridosso delle abitazioni soprattutto di quelle rurali.
Disponibilità di cibo significa anche maggiore fertilità, pertanto sviluppo esponenziale della specie, ma anche perdita - come nel caso di orsi e lupi - di quell’istinto selvatico che rifugge o, meglio, dovrebbe tenerli lontani dalle zone abitate, laddove la presenza dell’uomo rimarca un determinato territorio.
In pratica - e questo lo sanno bene anche i tecnici faunistici - gli animali che si espongono verso l’uomo in un atteggiamento tecnicamente definito “confidenziale” di fatto rappresentano un serio rischio per la comunità ma anche per loro stessi.
A Roma ossia nella città in cui vivo, i cinghiali ormai si trovano dappertutto. Si spingono fino ai parchi cittadini laddove persone comuni passeggiano con il proprio cane o i nonni con i loro nipotini, fino a trovarli che rovistano senza alcun timore, tra i cassonetti di fronte all’Ospedale Sant’Andrea.
Questa non può essere una situazione normale ed ecco perché un selvatico finisce poi per diventare nocivo.
L’intelligenza sta nel saper prevenire questi fenomeni, ma fintanto che l’approccio anziché tecnico scientifico, resterà ideologico, la situazione è destinata a peggiorare. Provvedimenti come l’introduzione del lupo per contenere la popolazione dei cinghiali sono una grande baggianata che solo persone incompetenti potevano tirare fuori dal loro cilindro fatto di prosopopea e di arroganza.
Ma ve lo immaginate un lupo che preferisce predare un cinghiale, magari in branco quindi anche potenzialmente aggressivo, anziché un gregge di pecorelle indifese? Siamo alle solite dei due pesi e due misure. Se viene ucciso un lupo o un orso apriti cielo, se muoiono capre, pecore, vitelli, cani di fattoria e altro, pochi si indignano come se la vita di un animale può essere di serie A o B.
Prendiamo ora in esame un altro animale per me nocivo, ossia la cornacchia. Si tratta di un animale scaltro e con una spiccata intelligenza. Ormai anche loro, al pari di piccioni e gabbiani, hanno trovato condizioni alimentari favorevoli associate a strategie di predazione talvolta degne delle migliori tattiche di sopravvivenza.
Sappiamo tutti che il piccione di città o torraiolo viene da tanti definito “un topo con le ali” per via delle numerose infezioni delle quali è portatore, tra le quali la toxoplasmosi. Nonostante questo, li vedete scorrazzare impunemente tra i tavolini esterni di un centro commerciale, o nei parchi giochi dei bambini e altrove. Questo è un evidente segno di un limite fisiologico naturale ormai superato. La misura è colma, come direbbe qualcuno, ma poco viene fatto anche per contenere questa specie - tra l’altro protetta nel nostro bel paese - al pari di storni, per i quali esistono deroghe inutili ai fini di un vero contenimento.
Anche le volpi non sono da meno. Non di rado le trovi alla porta di casa soprattutto nelle periferie urbane oppure anche loro a razzolare tra i cassonetti in cerca di cibo facile. Al pari dei cinghiali, anche le volpi pur mantenendo atteggiamenti più guardinghi nei confronti dell’uomo, assumono abitudini non consone a un selvatico.
In alcune città, si è ormai consolidata la presenza dei parrocchetti monaci. Si tratta di una razza di pappagallini colorati il cui areale tipico di provenienza, sarebbe il Sudamerica in paesi come Brasile, Paraguay, Uruguay e Bolivia. Le colonie trovano temperature miti e cibo in abbondanza. Esso è rappresentato da frutta secca come noci ma soprattutto di frutta fresca come ciliegie, fichi e tanta altra frutta di stagione possibilmente matura.
Anche questa specie come altre, se non gestita correttamente porta inevitabilmente a una alterazione di equilibri naturali ma soprattutto, arreca danni economici a chi di queste coltivazioni ne fa una fonte di reddito (chiedere agli agricoltori della Puglia e non solo).
Qualcuno dirà che tutti gli animali hanno il diritto di vivere serenamente, riprodursi e questo è una verità sacrosanta ma relativa. È sempre l’uomo con le sue osservazioni/valutazioni preventive, con i provvedimenti specifici, a introdurre sistemi di controllo e di prevenzione affinché una specie di per sé “normale”, non diventi poi nociva per la collettività.
È di questi giorni la bagarre che si sta scatenando sulla proliferazione anomala del granchio blu, una specie arrivata in Italia all’interno delle casse di zavorra delle navi e che si sta espandendo a macchia d’olio in tutti i nostri mari a danno di altre specie, con gravi ripercussioni sugli allevamenti ittici sia essi di mitili che di pesci.
In gergo calcistico i provvedimenti qualora assunti sempre che efficaci, sono delle “entrate a vuoto” ossia in ritardo rispetto alla criticità. quindi spesso inutili se non addirittura economicamente sbagliati (sperpero di denaro pubblico come, ad esempio, la proposta di sterilizzare le femmine del cinghiale).
Senza troppi giri di parole, se ho le formiche nel giardino lascio perdere, ma se queste me le ritrovo in casa, dentro gli armadi e la dispensa, e sono costretto a buttare via alimenti contaminati, allora assumo i miei provvedimenti che vanno dallo spargimento di polveri specifiche o all’irrorazione di liquidi adeguati e in libera vendita.
A mio parere, lo stesso atteggiamento si dovrebbe adottare con la fauna nociva, con la differenza sostanziale, che sono gli Enti di competenza a dover valutare questi fenomeni anomali, cosa che difficilmente accade. La gestione dello storno in Italia è l’esempio lampante di queste politiche miopi. In quasi tutta Europa questo volatile è considerato dannoso per l’acidità del suo guano con il quale imbratta strade, auto ecc. mentre in Italia o è protetto, oppure il suo prelievo è fortemente limitato anche se la specie è in costante aumento.
È giusto impegnarsi per difendere le specie che mostrano anche solo segni di potenziale estinzione, doveroso proteggere quelle che vivono tranquille nei loro areali naturali che siano orsi, lupi o altro, ma allo stesso modo, è sacrosanto contenere con ogni metodo possibile ed efficace, le specie in sovrannumero per riportare un equilibrio senza il quale l’uomo è destinato a pagare pegno.
Il problema, ed è inutile girarci intorno, come al solito è ideologico. Le questioni vengono sovente affrontate non per quello che sono ma per ciò che una parte o l’altra pensano. Sono fermamente convinto che proteggere la natura non significhi metterla sotto una campana di vetro. Al contrario, l’intelligenza sta nel saper valutare con sufficiente anticipo, quali sono i fenomeni di potenziale alterazione rispetto a quello che io definisco un “equilibrio naturale”.
È un po’ ciò che accade nell’approccio tra la caccia e la pesca. Pochi si indignano se un pesce viene preso all’amo, ingannato da un succulento boccone, qualcun altro (non tanti di più, per fortuna) ritiene la caccia un atto criminale, quindi da ostacolare con ogni mezzo anche quando la caccia e i cacciatori diventano uno strumento utile per la collettività e per la natura stessa.
Lasciamo a questi ultimi la convinzione di essere nel giusto, ma al momento opportuno, inchiodiamoli alle loro responsabilità per scelte sbagliate e tal volta scellerate.
L’Italia ha bisogno di gente seria e competente in ogni settore, compreso quello faunistico, così come ci si aspetta da chi ha la responsabilità su determinate questioni, di affrontarle in maniera razionale, ragionevole e soprattutto con efficacia e tempestività.
Chiediamo forse troppo???
“Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo poi obbligati a mietere quello che abbiamo piantato” (Proverbio cinese).