Oggigiorno la caccia sta divenendo sempre più un argomento delicato da dibattere. L'arte venatoria (ars venandi, in latino) non è un effimero divertimento, come spesso viene ignorantemente semplificato; è una cultura antica, una passione nobile forgiata da ataviche emozioni; basti pensare al comportamento del cacciatore, che trascorre il suo tempo ad ascoltare la natura, osservando la fauna per studiarne il comportamento. L'emozione per essa non si esprime esclusivamente nell'atto finale della fucilata, si interpreta e si riconosce nelle lunghe passeggiate nei boschi, nelle valli, sulle montagne: con i suoi inebrianti odori e con i suoi infiniti colori.
Manca la selvaggina. Siamo sicuri che sia colpa dei cacciatori?
Il problema più grande della mancanza di selvaggina nel nostro paese non credo si possa attribuire al cacciatore; non è così, il discorso è molto più complesso.
Il numero delle doppiette è diminuito notevolmente dal 1980 dove si contavano oltre 1.701.853 licenze di caccia, ad oggi dove se ne stimano meno di 738.602, imputabili a molteplici ragioni: vuoi per la metamorfosi della condizione umana all'interno della società, chiamata "progresso"; vuoi per la situazione che la caccia stessa sta vivendo in termini politici: tasse cospicue, in relazione agli ambiti territoriali di caccia sempre più limitati, calendari venatori ridotti, emendamenti ridicoli, ripopolamento della selvaggina stanziale molto scarsa e mal gestita in gran parte delle regioni italiane; per non parlare delle trasformazioni che il nostro pianeta sta subendo.
La superficie non antropizzata, coltivo e boschiva si è drasticamente ridotta, e molti di quegli appezzamenti coltivati sono "nutriti" con diversi prodotti chimici che non giovano alla salute di nessun essere vivente.
Nell’orto la terra fertile è un "terreno vivo" che contiene miliardi di organismi viventi per ogni centimetro cubo. I batteri presenti nel terreno portano avanti diverse trasformazioni chimiche, fondamentali per alcune funzioni biologiche per la vita sulla terra. Data l’importanza del "terreno vivo", dobbiamo preservare l’integrità dei cicli ecologici nelle pratiche di orticoltura e agricoltura. Questo principio è la base dei metodi di coltivazione tradizionali.
In passato i contadini seminavano colture diverse tra loro, applicando la rotazione dei terreni, in modo da conservare l’equilibrio del terreno. Non occorrevano pesticidi, poiché gli insetti attratti da una coltura sarebbero scomparsi con la successiva. Al posto di utilizzare fertilizzanti chimici, i contadini arricchivano i loro campi con il letame, restituendo la materia organica al terreno e facendola rientrare nel ciclo ecologico.
Circa mezzo secolo fa questa pratica della coltivazione biologica è cambiata drasticamente con l'introduzione di fertilizzanti e pesticidi chimici. La coltivazione chimica ha danneggiato l’equilibrio del nostro terreno, portandolo ad avere un impatto dannoso sulla salute animale, poiché ogni squilibrio presente nel terreno, incide sul cibo che vi cresce e quindi sulla salute delle creature che vi si nutrono.
Il problema del riscaldamento globale e le sue conseguenze
Le temperature sono in aumento a causa del riscaldamento globale, o "surriscaldamento climatico", dovuto all'incremento della concentrazione atmosferica dei gas serra, in particolare dell'anidride carbonica.
Tornando al mondo animale, se parliamo della selvaggina migratoria, ovvero quella che transita per il nostro territorio, con possibilità di sostare per un certo periodo e semmai nidificare nei periodi di svernamento, nelle ultime stagioni sembra essere in netto calo nel nostro "bel paese".
In molti ritengono che l'aumento delle temperature su gran parte dell'Europa orientale fino alle latitudini Asiatiche abbia bloccato la migrazione (in particolare di tordi bottacci, tordi sasselli, cesene) e quindi la permanenza nelle zone di nidificazione, poiché le temperature durante tutto l'inverno non sono mai state troppo rigide.
La migrazione è un evento biologico che induce la selvaggina a spostarsi in cerca di cibo ed in cerca delle condizioni ambientali idonee per poter sopravvivere, ma se ciò che necessitano gli uccelli per la sopravvivenza è possibile trovarla alle stesse latitudini nelle quali si riproducono, vi è il rischio che non sentano la necessità di migrare e rimangono nei loro paesi di origine?
Un'altra avvalorata ipotesi è quella di una cattiva nidificazione nei luoghi di riproduzione; ovvero se una o due covate su tre non si siano concluse positivamente, ecco che il contingente si riduce di gran lunga.
Gli habitat e la presenza di pasture che un tempo offrivano riparo e nutrimento a diverse specie, oggi sono in diminuzione, implicita anche l'estensione dell'urbanizzazione, per cui gran parte della selvaggina stanziale (ovvero quella che vive e si riproduce nel nostro territorio, senza migrare come starne, fagiani, pernici, lepri) che un tempo è stata protagonista in diverse cacciate dei nostri nonni, al tempo d'oggi scarseggia o sarebbe quasi estinta se non fosse per il ripopolamento (quando avviene) negli ATC e nelle Aziende Faunistico/Agrituristico Venatorie.
Ragion per cui, come abbiamo anticipato precedentemente, il territorio ha subito notevoli cambiamenti, e dove non è arrivato esplicitamente il "cemento", la stessa natura tacitamente si è trasformata.
Ad esempio: nel centro/nord Italia, alcuni studi hanno rilevato che una quarantina di anni fa, gran parte della superficie veniva coltivata mentre il bosco rappresentava una porzione sparuta, ad oggi le percentuali si sono invertite causando un netto calo della stanziale; contrariamente vi è una numerosa quantità di ungulati, e dove un tempo si potevano cacciare quaglie, tortore e allodole oggi si trovano più beccacce.
Vorrei concludere con questa bella quanto vera citazione di Hermann Löns, che racchiude l'essenza di essere cacciatore: "La precisione di tiro non basta per essere un buon cacciatore. Colui che possiede esclusivamente questa capacità, farebbe bene a restarsene a casa.
Ma chi ama la fauna e il bosco anche quando non risplende il fuoco, non si ode il fragore dei fucili e va fuori anche durante il periodo di divieto di caccia, quando la terra e gli alberi sono congelati o coperti di neve, quando il cibo scarseggia, il bisogno è massimo e la morte raggiunge l'animale selvatico... Solo colui che scongiura la morte curando, nutrendo e proteggendo gli animali, merita di essere chiamato cacciatore."