È l’ambiente nazionale per antonomasia; quello che da sempre raffigura la gran parte della caccia col cane in Italia.
La ragione di ciò è ovvia, visto che da quelli dolci della Toscana e dell’alessandrino, sino agli aspri – verdissimi ancora – umbri, marchigiani e romagnoli (passando per il cupo Abruzzo, la selvaggia Calabria etc.) son proprio i colli che nel mutar delle stagioni hanno saputo divenire teatro delle più grandi gesta di cani e cacciatori…
La cosa è nota anche a chi viva al piano oppure al monte, e mai di lì si sia mosso lungo lo stivale (purché abbia memoria dei tempi in cui leggeva il sussidiario): l’Italia è Paese in prevalenza collinare. Ed è infatti sulle colline che sono state scritte le pagine più belle della nostra caccia coi cani da ferma. Quando ancora vergine era la civiltà contadina (e grande, diciamolo, la miseria delle genti), furono le pernici la passione; sempre più collettiva, via via che miglioravano le condizioni economiche anche del popolo cacciatore.
Nel Nord e in Liguria, nel reggiano e nel pavese soprattutto rosse a dar filo da torcere ai rari cinofili d’allora.
Nelle isole maggiori sarde e coturnici. Ma furon le starne che un po’ dappertutto – con veri e propri santuari quali i calanchi emiliano-romagnolo e marchigiani, le campagne dell’Umbria e della Toscana e le colline di confine tra Lazio ed Abruzzo –le starne dicevo, che costituirono il capitale primo per una nascente cinofilia nazionale.
Sole e luna di tutti i sogni venatori d’ogni cacciatore in possesso d’un cane da ferma… Ce n’erano infatti, e tante, anche di beccacce; ma per decenni (vorrei dire per quasi due secoli) non interessarono che una ristrettissima nicchia d’appassionati e quasi tutti boscaioli e montanari. Solo la starna contava e poi la quaglia, anche se come palestra o poco più, il resto non c’era. Il resto semplicemente non esisteva nelle ambizioni del cacciatore di classe.
Più che mai poi il fagiano; protagonista esclusivo d’eccessive battute in sterminate riserve padronali, e dunque inteso al massimo – per tanto, tanto tempo – quale pollastrone colorato da nababbi, di nullo o quasi interesse cinofilo-venatorio d’una caccia che sulla rusticità di selvaticissime pernici si temprava e misurava…
Quale fu il punto più alto della caccia in collina così come abbiamo imparato ad amarla? Dubbi zero: quel periodo beato che va dai primi anni del secolo scorso (saltando ovviamente le due guerre) sino alla fine degli anni ’60… Fu lì infatti che la caccia col cane da ferma alle pernici, starne in primis, dapprima in maniera stentorea e approssimativa, e poi con connotati estetici e di risultati sempre più prossimi alla perfezione – all’arte direi – raggiunse i suoi punti più alti: uno zenit così sfavillante da riuscire a illuminare con la sua memoria anche questi tempi tenebrosi che ci è toccato in sorte di vivere…
Si fissarono i tipi delle razze nazionali, s’iniziarono (purtroppo a discapito di bracchi e spinoni) importazioni di fuoriclasse inglesi e continentali (pointer e tedeschi soprattutto) d’avviare alle field trials e sui terreni di caccia; altrettanto il comparto armi e munizioni fu finalmente in grado di fornire (a coloro che se lo potevano permettere) apparati sempre più efficienti (retrocarica, polveri infumi, hammerless etc.).
E accadde così che due figure già note finirono per diventare letteralmente leggendarie: il cacciatore di starne col suo fedele ausiliare… Il dopoguerra fu caratterizzato da uno scenario siffatto: alcuni grandi professoroni e commenda di città, possidenti e benestanti agricoli a tenere ed addestrare cani purissimi, più d’uno e di gran genealogia sempre: inglesi per lo più, ma non solo. Gli altri a giro con quel che potevano permettersi. E furono gli anni del mitico bracco-pointer (meticci di kurhaar pointerizzato o di pointer bracchizzato) quale simbolo di una disinvolta cinofilia, capace non di meno di produrre anonimi campioni d’una caccia vera e rurale seriamente.
La sua ritualità era scandita da quel ciclico tornare delle stagioni che in maniera così formidabile disegna l’ambiente (più che altrove) tipicissimo del colle… Ad agosto s’era via per quaglie, e mitici divennero luoghi caratterizzati da campi sterminati di spagnara e panicastro. Le Piane di Sigillo, i dossi lungo le aste del Marecchia, del Cesano e del Foglia e del Metauro, Colfiorito poi e mille altri nomi che appartengono –causa anche la parcomania, demenziali calendari venatori odierni e l’attuale agricoltura chimica e meccanizzata – ad una vera e propria archeologia venatoria. ahimé…
Era lì che si metteva l’occhio in convergenza e la gamba aveva anch’essa il suo rodaggio; era lì che si definivano costati inspessiti da apatie estive sino ad incorniciare code più o meno lunghe e frangiate con pagnotte di muscoli frementi in ferme da capogiro. Divertimento puro d’un lavoro vero (per quanto mentalmente leggerino, quasi totalmente ludico) capace tuttavia di dar guadagno certo. Valuta aurea di forma e concentrazione posta in sicurezza nella banca del solleone, per essere poi spesa con profitto dietro le starne d’autunno solamente...
Cinofilia d'antan
Al tempo delle starne in collina l’impiego delle razze da ferma era così distribuito: pointer su tutti, ben seguito da una grande distribuizione del bracco tedesco e quasi in egual misura del setter inglese con numeri dunque decisamente inferiori agli odierni.
L’italiano era il re degli acquitrini e lo spinone quasi ovunque il cane per antonomasia dei rari beccacciari.
Ciò ha un senso se ci si pensa… Il pointer inglese e quello tedesco, col loro mantello corto e dunque la migliore resistenza al caldo, erano i cani in teoria più adatti per cacce che avvenivano soprattutto in estate e nei primi tempi che si dicono d’autunno. …
Almeno quanto in paduli e boschi, ricchi di scolopacidi ma poveri di cristiani, godibilissimi eran cani lenti e perciò godibili.
Ma era situazione che non sarebbe durata… Il setter aveva già tutte le qualità (e nessun difetto) per divenire in breve il tiranno dei nostri canili: versatile, coperto di vello resistente al pruno e alle asperità della boscaglia, fermatore impeccabile dal raggio d’azione veloce e virtualmente infinito, di poi anche recuperatore e riportatore, fu l’unica razza a passare totalmente indenne alla metamorfosi delle colline.
E fu così che nei quattro, cinque decenni che raccontarono le vicende di una collina dapprima della starna, poi del fagiano e dunque della beccaccia, lui, il setter, seppe dimostrarsi l’almeno teoricamente quale il più valido antagonista di tutte e tre le specie.
Decuplicò quindi la sua presenza a discapito soprattutto di pointer e kurzhaar, fece sparire o quasi spinoni e braccoloni, iniziando un’escalation di successi e gradimento che in breve ne avrebbero fatto il vero cane da ferma nazionale.
…Certo, fra torti e ragioni; argomenti giusti giusti per altre chiacchierate!
Già, le starne...
Eran loro in effetti il piatto forte del cacciatore-cinofilo. Condite certamente, dove possibile, con qualche altra pernice e poi la lepre; vera icona della caccia italiana (e non solo di quella coi segugi).
Fu il tempo leggendario del calanco e di qui cani e cacciatori capaci di cacciarvi; leggenda ormai di stoppie e ribattute e brigate da insidiasi con passione, maestria e gran misura: “…la non si va più: n’è rimaste tre o quattro, lasciamole per l’anno venturo!”
Ovvero d’una saggia umanità adusa a spender l’interesse serbando sempre il capitale in ogni cosa della vita. Quando poi vi giunse il “pensiero” industriale non fu così… pietoso (non lo è mai!); ed in un niente volle mutare il volto alle colline. Prossima alla fine fu perciò l’era della starna e di tutte le altre grandi pernici...
La storia degli ultimi anni ’60 e dei primi ’70 nelle colline raccontano d’un inesorabile abbandono del rustico per un tuffo nella vita cittadina, di fondi accorpati e consegnati alla nuova agricoltura chimica, che dove possibile furon spianati, macchinizzati (per non dire delle siepi divelte) o altrimenti – nei forti e negli impervi- abbandonati al rovo e al bosco ed alla macchia… Per una manciata di anni ancora questo fu terreno buono per il principale dei gallinacei da caccia europei; e col fagiano – mentre si moltiplicavano patetici tentativi di far risorgere la starna – si salvò – nessuno può più dire il contrario – la caccia in Italia; anzi, fu proprio nel periodo in cui le colline ne pullulavan di fagiani che l’attività venatoria ebbe la sua più grande esplosione di popolarità… Era lì tuttavia che stava preparandosi un periodo decisamente problematico. Sempre più velenata, sempre più meccanica, cementificata e asfaltata persino – ma altrettanto sempre più boscosa, intendiamoci – in breve la collina si dimostrò incapace a sostentare quelle specie che per millenni, proprio nel suo abbraccio contadino, avevan trovato sicuro ricetto: compresi qui fagiani che un po’ dappertutto presero drammaticamente a scarseggiare divenendo di colpo… preziosissimi!
S’un elemento fondamentale indugi ora la nostra attenzione: quello del ritorno del bosco in tutte le sue forme. Infatti sarà proprio all’interno di foreste sempre più folte ed intricate che dovremo metterci a cercare per ritrovar tra le colline il cacciatore col suo cane fermatore... Dico d’una storia che conosciamo bene poiché nostra. La storia di un nuovo mito formidabile che poté atechire nella stessa regione del cuore dove un tempo albergavano le starne: la beccaccia.
Due colori aveva dunque negli occhi il cacciatore d’un tempo: verde di prataglie e giallo di stoppie e di campagna già prossima all’autunno… Saranno anche del suo collega moderno intendiamoci, ma con tempi diversi e una tavolozza molto più articolata. Sicché tale divenne (ma è storia recente) il volto della stagione di caccia del cacciatore collinare del nuovo millennio… Settembre; a quaglie dove possibile, a fagiani dov’è probabile trovarne (grazie al lavoro di quegli A.T.C che funzionano e ci sono!): un mese in cui ti giochi tutto o quasi.
Poi – per non perdere il vizio e nelle annate non propriamente propizie- magari qualche uscita in una bella azienda di quelle a seria conduzione (ci sono anche queste). Ma è quasi tutto un pretesto; un indugiare in preliminari che alludono appena a quello che possiamo definire - in termini cinofili- il culmine dell’erotica venatoria contemporanea per quel che riguarda le colline… Un gioco di seduzioni amorose tra beccacce, (grandi) cani e (altrettali) cacciatori che per teatro hanno i boschi multicolori dapprima accesi da tutte le gamme di rosso e di bruno dell’autunno; e poi via via spenti e stemperati (non di rado su sfondi candidi) da rigori invernali scaldati da sfide al calor bianco con perfide impaesate…
A tutto questo, pur con alterne fortune e risultati assai differenti (sono rarissimi quei maestri capaci davvero di cacciare beccacce), giocoforza si son dovuti adattare cani e cacciatori. Dove prima si cercava il trailer starnista dal galoppo deciso, dalla cerca ariosa e sempre nel vento, veloce e corridore; dove poi divenne utile addirittura il soggetto sempre-a-tiro-di-schioppo, un po’ strapazzone e scovatore per i fagiani; di colpo indispensabile divenne un cane… strano.
Spavaldo ma prudente, volitivo ma correttissimo, col bosco nel sangue e doti di passione, sagacia ed equilibrio senza eguali: il beccacciaro. Una sorta di commando dove i suoi colleghi starnisti e fagianari eran già stati bersaglieri e poi fanti…
Un nuovo mito fatto di sogni e di passione, come sempre nel nome della caccia. Ancora…
Dal look alla sostanza...
Ma è tutto l’equipaggiamento da caccia che s’adegua alla nuova voga e al nuovo ambiente che son divenute oggi le colline…
Leggerissimi si fanno dunque i fucili e dalle canne più corte e “larghe”; similmente le munizioni diventano più prestanti sulle brevi che sulle lunghe di distanze; il gambale poi, di tessuto tecnico anziché di cuoio e vacchette maremmani, diviene quasi ovunque l’imprescindibile accessorio per traversare spinare e marrucheti.
E più ricercato, raffinato, si fa “di fuori” ma anche “di dentro” il cacciatore.
Il mistero e seduzioni crepuscolari, nordiche e forse qui giunte sulle ali delle beccacce (o forse sulla scia della nuova filosofia della gestione e della pirshiagd) divengono in breve il portato culturale di una caccia che sa farsi (ancora) parsimoniosa di spari e di carnieri, ma ricchissima di poesia di cultura; di sapienza vorrei dire.
Sorta d’attività venatoria svolta come filosofia di vita e ricerca d’una vita filosofica attraverso la caccia come arte della caccia e della conduzione dei cani…
Un fatto testimoniato da numerosi elementi sembra poi premiare questo vivere e pensare: ripristini ambientali messi in essere da più parti e set-aside; biologico e qualche fagiano in più e numerose lepri che fanno ben sperare; pernici (rosse soprattutto) che qui e là stanno tornando a covare. Ciò a dire che sembra – sembra dico (ribadendo scaramanticamente la dubitativa) – che si sia proprio dinnanzi ad una sorta d’inversione di tendenza. Cioè all’inizio d’un’epoca che finalmente pare aver capito come il futuro ce l’abbiamo (anche) alle spalle.
Ovvero in una sapiente integrazione fra antico e moderno, all’insegna del valore supremo delle tradizioni e delle attività ad esse collegate. …Ovvio, non sto parlando solo di caccia; ma anche di caccia!