Selvaggina alloctona
Come ci insegnano biologi ed etologi, il daino non va considerato in alcun modo “fauna autoctona”, anche se da almeno 2000 anni vi sono testimonianze della sua presenza nei nostri territori. Per ben capire in effetti la sua “storia italiana” ed europea in genere, è utile per noi, popolo prevalentemente di cacciatori ad anima liscia, fare un esempio con quello che ormai è il selvatico-icona della caccia nostrana: il fagiano…
Chi infatti non lo riterrebbe a buon diritto uccello da caccia nazionale?! Eppure, ciò non è vero neppure parzialmente e lo sappiamo tutti.
Non è vero nemmeno se già in mosaici romani e bizantini, miniature medievali e arazzi rinascimentali, pitture manieriste e secentesche nature morte etc. veniva a più riprese e dettagliatamente rappresentato… Il fagiano infatti, come ben dicono il suo nome e cognome – faseanus colchicus – era originario dell’Asia Minore, e sempre lì sarebbe rimasto non fosse stato per degli uomini che, a scopi ornamentali, venatorio e alimentare, vollero favorirne una più ampia diffusione. Si dice i Greci, dapprima, e poi i Romani, più massicciamente; non ha senso dubitare di ciò.
Orbene, ciò vale a tutti gli effetti anche per quel che concerne il daino: l’asiatico dei “nostri” cervidi…
Quattro passi nella storia...
Anche per lui le prime introduzioni documentate in Italia infatti, sono da attribuirsi ai Romani; ancorché sia assai probabile come, a partire (forse) dal V secolo A.C. già Fenici, Greci e Cartaginesi avessero iniziato una sua relativamente massiccia diffusione lungo le coste del Mediterraneo occidentale (i nuclei sardo, estintosi nel ’68, e quello ancora presente nell’isola di Rodi, pare abbiano proprio quest’origine).
Di lì in poi, specie nel Medioevo e nel Rinascimento, la storia del Dama dama sarà sempre legata a oscillazioni “schizofreniche”: grandi introduzioni a ornamento di parchi e giardini; repentine estinzioni causate da molti fattori, primo dei quali le assai diffuse, specie in epoca barocca e successive, cacce a forzare. …Cacce per modo di dire: in realtà veri e propri stermini organizzati in asettici recinti chiusi; in cui il gradiente, l’aspetto naturale, era tutto affidato a teloni dipinti a trompe-l’oeil…: un orrore, insomma!
Ma torniamo a noi… Ovvio che nel corso degli anni, viste la grande adattabilità della specie e la facilità del suo allevamento, in base alle possibilità offerte dai cicli storico-economici, le operazioni d’introduzione si susseguirono in maniera più o meno costante. Ma con scarsa incidenza totale su un territorio rurale assai abitato e caratterizzato da un’agricoltura parcellizzata e diffusa; con in più una presenza di “doppiette senza scrupoli e affamate davvero” (abbiate pazienza, ma non ce la faccio a chiamarli bracconieri i mezzadri d’un tempo che cercavano anche col fucile di dar corpo a una mensa asfittica)! Fatto sta che tra la fine della II Guerra Mondiale e i primi anni ’50, nuclei stabili di daino erano presenti solo nelle riserve presidenziali di San Rossore (Pisa) e Castelporziano (Roma), e in quelle private del Boscone della Mesola (Ferrara) e dei monti dell’Uccellina, nel
grossetano; mentre come selvatica era considerabile solo quella sarda, che poi sarebbe scomparsa prima degli anni ’70… Ironia della sorte!
Perché sarà proprio in tale periodo che, a causa di un ambiente sempre più idoneo alla specie e a ripopolamenti sempre più massicci (con relative fughe da recinti e irradiamenti spontanei etc.), in Italia, assieme agli altri ungulati, anche il daino inizierà a ritornare. Giungendo a colonizzare interi areali in proporzioni così importanti ormai, da rendere necessario un corretto intervento nei confronti della specie che sempre significa oculati piani di gestione che prevedano l’affidamento dei censimenti e dei prelievi a esperti e appassionati cacciatori abilitati al prelievo selettivo.
L’impatto (potenziale) sulle colture
Per capire il successo del daino in questi ultimi anni importante è considerare il suo elevatissimo livello d’adattabilità ambientale. Specie sul versante alimentare poi, proprio il daino pare caratterizzato da una spiccata plasticità trofica: mangia pressoché di tutto e ovunque lo possa trovare.
Ciò a dire che si adatta benissimo, facendo sì che la quantità di cibo ottenuta dal pascolo o attraverso la brucatura del fogliame di cespugli e alberi – costante nella quantità – dipenda dalla disponibilità locale e stagionale e dalla distribuzione spaziale delle fonti alimentari. Ovvio che, come ogni cosa in natura, pur essendo dotato di notevoli capacità dinamiche, potendo tende sempre a risparmiarle le energie.
Cioè, se nei paraggi dei suoi territori d’insistenza può trovare ricche fonti di cibo create dall’uomo, comodamente le sfrutta senza indugi… E lo fa sia di giorno ché di notte, con un particolare picco d’attività alimentare verso il crepuscolo…
Per attentamente valutare il livello d’impatto sulle colture umane che la specie può avere, ci si può affidare a un metodo (para)scientifico pur tuttavia assai verosimile: conoscendo il peso pieno (P) infatti è possibile stabilire approssimativamente il peso metabolico (PM) del soggetto; …PM=P alla 0,75.
Da ciò ne deriva che il consumo giornaliero di biomassa espresso in kg di peso metabolico risulta essere più o meno pari a 50 gr di materia tra secca 85% e proteica 15%. Ciò a dire che se a un fusone di 50 kg serviranno 2,5 kg di biomassa a un palancone da un quintale ne serviranno 5. Si pensi ora a un branco di 30 individui tra giovani, femmine etc. il cui peso complessivo sia di 2 tonnellate: se ne deriverà che questi saranno capaci di mangiare da un campo ben un quintale di “roba” al giorno, tutti i giorni!
Una specie “problematica” e dunque da gestire…
Nei confronti del daino si attua una tipologia gestionale bifronte: vale a dire una gestione che mira da un lato a conservare (sempre tramite il prelievo selettivo) le popolazioni dei nuclei storici di Dama dama – per intenderci, quelle da così tanto tempo sul territorio da poterle considerare (come dicevamo per i fagiani) locali e dunque importanti ai fini della biodiversità. Dall’altro in una tipologia d’interventi assolutamente mirati al deciso, drastico contenimento per qui capi isolati o per qui branchi, diciamo così, fuori zona, la cui presenza, visto l’elevatissimo livello di competitività specie col capriolo (assolutamente autoctono questo), porterebbe a un disequilibrio naturale affatto auspicabile riscontrabile nella sparizione di quest’ultimo.
Ciò a dire: nuclei storici di daino sì; nuove colonie no o qualcosa di simile, in base alla finalità di gestire complessivamente i territori affinché possano presentare i più elevati e corretti parametri di biodiversità.
Insomma: il capriolo c’era, c’è e deve restare, il cervo c’era, sta finalmente tornando e deve tornare; se la presenza del daino – che è gradita e gradevole, intendiamoci, ma certamente alloctona – per il fatto d’insistere sulle medesime risorse trofiche degli altri due cervidi fa calare drasticamente il capriolo e impedisce il radicamento del cervo, allora il daino deve essere severamente contenuto: semplice!
In termini pratici questo vuol dire che, se per il capriolo il prelievo si attesta su coefficienti che vanno dal 10 al 12% sempre, per il daino, dove necessario, si può arrivare ad un 45-50%, che tiene conto anche di quella che è una della caratteristiche fondamentali della specie: la sua scarsa, difficile osservabilità (e dunque la difficoltà intrinseca di fare censimenti).
Non quindi eradicamento, come qualcuno, malignamente, ha vociferato, ma solo un contenimento decisamente drastico causato da ferree motivazioni scientifiche e perché no, anche economiche…
A differenza del capriolo infatti, e molto più del cervo, praticamente come il cinghiale, il daino ha tendenza a imbrancarsi e a costituire vere e proprie mandrie. Queste – non ci vuole tanto a capirlo, visto che parliamo di animali mediamente di 60-65 kg – quando giungono su un territorio agricolo possono arrivare ad avere un impatto devastante. Cioè a creare danni economici agli operatori di settore, che poi devono essere risarciti dagli organi preposti, causando quindi pastoie burocratiche e malumori a non finire. Per non dire poi degli incidenti stradali.
Insomma, un selvatico “problematico”, ben diverso dall’immagine stereotipata e da quel che il nome tutto femminile – Dama – farebbero supporre. Infatti, gliela si dia davvero la caccia a daini, e si veda poi se quelli selvatici da generazioni si comportano come nei quadri o come quelli nei recinti, che ti vengono a mangiare dalle mani!? Una volta sul terreno di caccia, lì sì che le cose si complicano enormemente e il daino si rivela in tutta la sua complessa “problematicità” che lo rende selvatico vero, difficile, preda d’elezione per chi l’abbia davvero nell’anima la caccia a palla…! Non v’è certezza che tenga infatti col daino.
Puoi appostarlo per giorni, immobile come una statua dove l’avevi visto varie volte e nelle ore canoniche e invece niente. Poi di colpo eccolo ricomparire, magari in branco, nelle ore più impensabili, quando ti trovavi a frequentare le stesse zone per tutt’altre ragioni e ovviamente non avevi con te la carabina. Ma è la norma con un selvatico che dell’imprevedibilità sa fare la sua arma di difesa; sempre connessa questa, specie quando trattasi di branchi numerosi, con un’estrema “leggerezza”. Che non vuol dire elusività intrinseca; ma la costrizione per il cacciatore, specie quello alla “cerca”, d’adottare il minor gradiente possibile d’“impatto ambientale” nel suo circospetto girovagare alla ricerca di daini; un movimento inconsulto, un incedere appena appena rumoroso, e tutto diventa inutile! Una caccia dunque difficile, vera, e per di più anche una caccia necessaria, utile affinché, ancora una volta sia proprio il cacciatore coscienzioso – come diciamo da sempre – la figura capace di dare una mano alla natura a conservare (e ripristinare, quando necessario) la sua solenne armonia.
SAG; ovvero Ottica (Sight), Munizione (Ammunition) ed Arma (Gun)
Chi pratica da un po’ di tempo la selezione lo sa; il livello d’importanza delle singole parti, in quell’insieme che chiamiamo “fucile”, è rappresentato al 60% dall’ottica, al 30% dalla munizione, lasciando all’arma in quanto tale il 10% e non di più del coefficiente d’efficacia. Come si diceva, il daino lo si dovrà cacciare con tecniche miste (cerca/appostamento); ergo l’ottica più indicata, quella che ci consentirà d’alternare fasi dinamiche ad altre d’appostamento, sarà indubbiamente rappresentata da un variabile di gran marca 3-12X50-56.
Per quel che riguarda poi il rapporto munizione-arma, non si può, innanzitutto non partire dalla ricerca del calibro più indicato. E dovrà essere uno di quelli capaci di lavorare pulitamente su animali la cui taglia, in base alla tipologia d’intervento selettivo che ci troveremo a fare (conservativo o contenitivo), varierà fra i 30 e i 110 kg. Ciò fra la taglia di un capriolo grande, e quella di un cervo piccolo. Il tutto in un animale dalla vitalità spiccata.
La scelta diventa quindi obbligata, e vedrà come protagonisti quei calibri dal 25.06 come minimo e per chi ha bisogno di radenza, sino ad arrivare a tutti quelli della grande famiglia dei 7mm. classici. L’optimum? 7X64 Brenneke e non se parla più; con un occhio di riguardo anche a 308Win., 270Win. e al sempiterno 30.06Win. Per le palle poco da dire: 130/140 grani a deformazione controllata, oppure serissime monolitiche. …Così attrezzati, con al collo un bel binocolo (perché no un bel 8,5X42EL Swarovsky?) e nell’anima la voglia di far bene il nostro lavoro, poi si potrà avere tra le mani una bolt action di serie o un basculante monocolpo da qualche decina di migliaia di euro: se si è capaci d’andare a caccia davvero, come sempre, la differenza sarà nulla!