La Sardegna come tanti ben sanno è una terra molto particolare, in alcuni casi arida nel territorio ma discreta e generosa nella sua gente. Ricca di tradizioni agro pastorali che hanno contributo a forgiare nel bene e nel male il carattere dei suoi abitanti e con esso, le poche passioni possibili. Per anni l’agricoltura ma soprattutto la pastorizia sono state il fulcro dell’economia isolana. Il pastore è stato per definizione la prima sentinella del territorio contribuendo con la sua assidua presenza nelle campagne e sui monti impervi dell’entroterra, a preservare l’ambiente curandone lo stato di mantenimento tramite il bestiame portato al pascolo seguendo una logica di rotazione stagionale.
Sovente era facile incontrare pastori con l’inseparabile coltello in tasca e la doppietta in spalla quasi fosse un’appendice fisica da utilizzare come difesa personale e solo all’occorrenza come mezzo per procacciarsi la selvaggina da alternare al consueto formaggio o salume, oppure per contenere i nocivi e tra questi in particolare la volpe.
Ho ritenuto di fare questa modesta premessa perché la caccia in Sardegna è partita da questo contesto umile che accomunava nei tempi passati, tante altre realtà nazionali soprattutto a carattere rurale.
I terreni impervi e il maneggio intensivo del fucile indussero il pastore/cacciatore, a cercare un’arma che fosse allo stesso tempo efficace sotto l’aspetto venatorio ma anche leggera da portare in spalla. Per questo principale motivo i sardi ricorrono notoriamente e spesso, all’uso del calibro 16 come giusto compromesso alle predette esigenze.
L’agognato acquisto rappresentava di contro un enorme sacrificio economico in parte giustificato come tra l’altro accade anche adesso, dalla passione e dalle priorità che da questa ne conseguono ma all’epoca, disporre di un fucile significava anche la possibilità di soddisfare un’esigenza alimentare tramite le prede cacciate che venivano spennate o pulite dalle donne di casa come erano consuete fare con animali di bassa corte ecc.
Non c’era margine per fare errori di tiro o quantomeno gli stessi dovevano essere ridotti al minimo. Ricordo bene che fino agli anni ’50, l’elenco delle prede considerate concretamente cacciabili si fermava alla pernice. Questo perché la restante selvaggina quindi anche la quaglia, tordi, merli, beccaccia, facevano parte della sottocategoria e venivano definiti genericamente “uccelli “ossia quelle prede che non giustificavano il tempo perso (spesso se sottratto ad altre attività lavorative secondarie comunque basilari nell’economia famigliare) e il costo di una cartuccia anche se questa tassativamente caricata in proprio.
La ricarica delle cartucce rappresentava un vero e proprio rito al quale mio padre mi faceva partecipare e contribuire solo se meritevole nei comportamenti quotidiani e nello studio. La scarna attrezzatura era contenuta in una cassetta di legno conservata in un caldo ripostiglio adiacente la cucina con al centro un ampio camino. All’interno poche cose : un punzone leva capsule, calibratore per bossoli utilizzati, un bicchierino dosatore per il piombo, uno per la polvere, borre in sughero, cartoncini separatori, un pressatore in legno, piombo ( tassativamente del 7 all’epoca si diceva tutta caccia ma solo perché non si poteva divagare in altre spese per piombi diversi….), polvere anch’essa esclusivamente SIPE, un orlatore a mano e qualche bossolo nuovo anche perché i vecchi venivano ricaricati anche 4/5 volte tanto è che si spesso si deformavano e rischiavano di non uscire più dalla camera di scoppio dopo lo sparo. Per questo la cartuccera in pelle quella vera, composta da 25 celle (di più non servivano), era sempre accessoriata da un coltello a serramanico dotato in punta di estrattore per il calibro giusto, in questo caso il 16.
Il meritato premio per il contributo alla ricarica era l’occasionale concessione fatta da mio padre, di alcune cartucce (forse 5 di numero) adatte a un principiante come me e per tiri a fermo su qualche tordo o merlo. Grammatura di piombo ridicola forse non arrivava ai 10/15 gr, al posto della borra solo segatura, crusca quella data alle galline o coriandoli di giornale e chiusura a “cappello di papa” ossia con il bordo cartuccia schiacciato a mo’ di caramella.
Anche questo era in linea con le ristrettezze economiche e il contesto locale ma fa ben capire come i mezzi di oggi, dai fucili alle munizioni, dall’abbigliamento tecnico agli accessori vari, rappresentino un enorme e indubbio vantaggio del quale spesso non ci si rende conto o se ne approfitta perdendo qualche volta di vista il concetto anche banale di balistica (le padelle trovano sempre una giustificazione… ) ma anche di fatalità e congiunture che sovente determinano la riuscita di una azione di caccia e/o del tiro finale.
Altro elemento imprescindibile il cane. Si trattava sempre di cani meticci i cui nomi ricorrenti (Arno, Diana, Argo, Zara, ecc.) erano ausiliari polivalenti nel senso che avevano una spiccata propensione venatoria ma totalmente ineducati nel collegamento, nel riporto ed altro.
Scagnavano sulla pastura delle pernici come su quella di lepre o coniglio. Spesso dovevamo sopperire alla loro evidenti carenze, con la velocità di gambe e se volevi incarnierare qualche bella pernice dovevi in alcuni casi mettere anche le poste (gli inglesi hanno copiato da noi…). La morfologia del terreno faceva il resto limitando di fatto l’esercizio venatorio di alcune specie come l’Alectoris barbara, ai cacciatori perfettamente efficienti sotto l’aspetto fisico (insomma buone gambe e zaino in spalla – niente fuoristrada).
Tutto molto casareccio, tutto molto più complicato ma che grande emozione sentire il canto all’alba della pernice capobranco con il timore che la brigata prendesse l’involo e poi essere costretti a doverle andare a ribattere faticosamente nei sottostanti canaloni ghiaiosi o tra i lentischi centenari.
Quindi si parte dai ragazzi con la fionda, passando ai primi tiri con cartucce quasi finte per arrivare ai nostri giorni con ragazzi completamente diversi da primi, dotati di tutto punto a partire dall’abbigliamento tecnico, ma in ogni caso accomunati dalla stessa identica e grande PASSIONE. Una passione che non ha spiegazioni apparentemente logiche ma che ci spinge fino all’ultimo, a fremere la sera, a non dormire sereni e ad alzarci dal letto la mattina seguendo il nostro infallibile orologio biologico che ci sveglia regolarmente 10’ prima dell’ora impostata.
Forza ragazzi non mollate e siate fieri di essere cacciatori moderni ma anche antichi nello stesso tempo. Non vergognatevi MAI di portare avanti le tradizioni possibilmente con un pensiero rivolto a chi nel passato come me ed altri giovani cacciatori dell’epoca, non disponevano dei mezzi attuali ma che trovavano comunque gli stimoli per rendere ogni giornata dedicata alla caccia, una giornata unica e indimenticabile.
VIVA LA CACCIA! VIVA I CACCIATORI!