Quando la caccia a palla era patrimonio quasi esclusivo della zona Alpi il resto dei cacciatori italiani, salvo pochissime eccezioni, conosceva ed utilizzava solo il fucile a canna liscia…e quello conosceva, nei suoi limiti e possibilità (e manco sempre, diciamoci la verità!). Poi tornarono gli ungulati: prima l’esplosione massiccia del cinghiale, poi i caprioli, daini e qualche cervo cominciarono a spostare l’interesse del cacciatore dal liscio alla canna rigata e tante persone si trovarono a rigirarsi in mano un’arma alla quale non erano abituati e che poco conoscevano sia per tipologia che per potenzialità.
Attualmente per i cacciatori Italiani, credo sia l’Appennino l’areale che offre le maggiori occasioni per praticare la caccia a palla sia selettiva che in braccata, ma i cacciatori appenninici non hanno la stessa confidenza con l’arma rigata che ha un cacciatore alpino semplicemente perché nella stragrande maggioranza dei casi alla carabina ce lo hanno portato in tutta fretta il rapido mutare delle forme di caccia e delle popolazioni animali cacciabili.
Sparare a canna rigata non è come sparare a canna liscia, l’arma rigata non permette le approssimazioni ed il pressapochismo che può essere tollerato usando armi lisce, ed è imperativo che il novello “rigatista” ci si adegui immediatamente, sia dal punto di vista pratico che da quello mentale.
È fondamentale conoscere bene l’arma che si usa e le sue potenzialità, tenere ben presente che una munizione rigata viaggia, fa chilometri: quindi non va mai sparata se non si è più che sicuri che impatti in luogo sicuro.
Tradotto in un esempio pratico non si spara mai ad un selvatico che si presenti su un crinale e meno che meno quando non è ben visibile ma si vede o si sente solamente muoversi qualcosa fra il folto, potrebbe non essere l’animale cacciato ma ben altro.
I nuovi regolamenti che impongono abiti ad alta visibilità se da un lato danno l’immediatezza della presenza di altri cacciatori, dall’altro abbassano l’attenzione, si potrebbe essere portati a pensare che tutto quanto non sia orange e si muove sia il selvatico, ma cosi non è, potrebbe essere un tartufaio, un fungaiolo o qualsiasi altro soggetto che fruisce del bosco (purtroppo sono eventi già capitati).
Quando si caccia con il rigato, è noto che le possibilità di sparare sono molto ridotte rispetto alla caccia con il liscio e a volte, quando arriva l’occasione, si tende ad essere troppo precipitosi nel premere il grilletto.
La caccia con la carabina impone l’obbligo di mirare, il tiro di “stocco”, al quale sono molto affezionati i nostri cacciatori, non deve esser mai preso in considerazione ed anche quando si spara ad animali molto vicini, caso frequente nella braccata, mirare sempre. Il 90% delle padelle sono dovute a questo, al non mirare, con il risultato che tutti i colpi, e non è un caso, vanno alti sopra l’animale.
Per chi pratica la selezione, è molto importante conoscere l’anatomia dell’animale cacciato in maniera da poter meglio piazzare il colpo in funzione della posizione tenuta dal selvatico, evitando il più possibile di colpire malamente e causare ferimenti sempre problematici da gestire.
Evitare sempre il tiro frontale o quando l’animale ci presenta solo le terga, aspettando che l’animale ci si presenti in maniera da poter attingere la zona cardiaco-polmonare, che resta sempre il miglior bersaglio disponibile ed il più facile da colpire.
Una buona precisione nel tiro la si ottiene soltanto sparando, quindi frequentare i poligoni sarebbe doveroso per acquisire quella necessaria confidenza con arma e munizione che è importantissima per il selecontrollore, anche se purtroppo lo fanno in pochi, e questo a volte si traduce in una scarsa o pessima capacità di colpire a distanza con sicurezza che è poi il maggior difetto del cacciatore. Basterebbe davvero poco a migliorare.
Al giorno d’oggi tutto è comunicazione ed anche il cacciatore “comunica” con chi lo vede, cominciando anche da come si veste. Chi pratica la caccia di selezione rappresenta l’immagine migliore che il cacciatore possa dare di se all’opinione pubblica e dovrebbe comportarsi sempre secondo criteri che consolidino l’aspetto tecnico, scientifico e sostenibile di questa forma di caccia.
Occorre dimenticare l’aspetto tipicamente predatorio che purtroppo è tipico del cacciatore e concentrarsi su quello gestionale, cercando sempre, quando possibile, una certa coerenza comportamentale.
Nessuno ha la pretesa che il cacciatore possa sostituirsi alla natura nel migliorare la qualità delle popolazioni ungulati ma si può certamente incidere in maniera corretta e professionale. Nella pratica la cosa può tradursi con il risparmiare il bel maschio dominante o il giovane promettente, porre maggior attenzione nel cercare la femmina sterile o vecchia, cercando sempre e comunque di non destrutturare le popolazioni. La caccia di selezione non migliora solamente l’ambiente…la selezione migliora l’uomo.