Per selvaggina (o cacciagione) si intende qualsiasi animale cacciato a scopo alimentare. In alcuni Paesi, la selvaggina è classificata in base alle dimensioni e la pratica della caccia è giuridicamente suddivisa in caccia “piccola” (small game) e “grossa” (big game). In Italia si tende a suddividere la selvaggina in base alla classe biologica, ovvero mammiferi e uccelli. In altri continenti rientrano nella selvaggina anche i pesci e i rettili.
La selvaggina italiana include specie quali: lepre, coniglio selvatico, cinghiale, daino, cervo, capriolo, camoscio, muflone per quanto riguarda la selvaggina “da pelo”. Per la selvaggina “da piuma” soprattutto fagiano, anatra, pernice, quaglia, beccaccia, colombaccio, tordo.
La vita allo stato brado
Fin da tempi antichi, in Italia, la selvaggina ha costituito una risorsa alimentare importantissima, quasi paragonabile a quella attuale dell’allevamento. Con il passare del tempo, con l’urbanizzazione e l’industrializzazione dell’alimentazione, ha progressivamente perso di valore commerciale. Oggi la figura del cacciatore, come quella del cacciatore professionista, è profondamente mutata. La caccia è tema ideologizzato e frainteso, indipendentemente dai suoi benefici. L'etica è di solito il primo argomento sollevato contro di essa. Ma la carne di selvaggina può essere una risorsa importante, anche in questo senso. Ed è senz’altro una buona scelta dal punto di vista nutrizionale e organolettico.
Naturalmente tutti gli accurati controlli previsti dalle normative italiane ed europee garantiscono sugli aspetti sanitari considerando che la selvaggina può essere un veicolo potenziale di: Salmonellosi, Campilobatteriosi, Escherichia coli, Listeriosi, Toxoplasmosi, Peste suina africana, Trichinosi, Epatite E.
La carne di selvaggina è una scelta buona, sana e anche sostenibile: limita l’impatto ambientale, in particolare il consumo di terreno e di acqua, rispetto a quello prodotto da allevamenti intensivi.
Numerosi studi recenti prendono in considerazione i rischi legati all’eliminazione della carne di selvaggina dal circuito dell’alimentazione (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982221001445). Esistono, per esempio, seri rischi di carenze proteiche in alcuni dei Paesi più insicuri dal punto di vista alimentare (dall’Africa subsahariana all’America meridionale e persino all’Europa). La Costa d'Avorio e il Botswana sono stati identificati come quelli che fanno più affidamento sulla carne selvatica, ricavando rispettivamente il 73% e il 61% delle proteine animali dalla carne selvatica e classificandosi all'84° e 57° posto (su 113), rispettivamente, per l'insicurezza alimentare globale. Otto paesi potrebbero essere a rischio particolarmente elevato di carenze proteiche, perché la perdita di carne selvatica senza sostituzione immediata potrebbe far scendere le scorte proteiche medie pro capite al di sotto delle assunzioni minime raccomandate dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Questi Paesi, che si trovano tutti nell'Africa subsahariana, sono: Madagascar, Repubblica del Congo, Guinea, Ruanda, Repubblica Centrafricana, Zimbabwe, Botswana, Costa d'Avorio. Per sostituire l’apporto di proteine fornite dalla carne di selvaggina sarebbero necessari, dunque, maggiori investimenti sul bestiame allevato con la necessità di destinare il suolo ad altri usi e una conseguente grave perdita di biodiversità.
Le proprietà della carne selvaggia
L'animale cacciato non ha mai vissuto in gabbie, non è mai stato tenuto in ambienti ristretti e affollati e non è mai stato trattato con antibiotici o altri farmaci. Come invece non si può dire per gli animali sottoposti ad allevamento intensivo. La selvaggina ha vissuto una vera e propria vita “selvaggia” e molto attiva, non importa se lunga o breve. Ha vissuto in modo naturale, si è riprodotta e ha curato la prole in modo naturale, si è nutrita allo stato brado di erbe spontanee e foraggio verde e mostra il comportamento degli animali liberi e selvaggi in natura.
Di conseguenza, la carne di selvaggina tende ad avere un contenuto di grassi inferiore rispetto alle altre carni. A seconda dell'età, del sesso e dello stato nutrizionale dell'animale, il contenuto di grassi varia dall'1 al 6% e la carne ha un rapporto favorevole di acidi grassi Omega 3/6. È anche un'ottima fonte di proteine: tra tutti i tipi di carne, è la carne di selvaggina che ha il più alto contenuto proteico pari al 21-25% (per esattezza, nel caso delle carni di camoscio, capriolo, cervo e cinghiale, l’apporto di energia dalle proteine è rispettivamente del 87,2%, 84,1%, 82,6% e del 83,1%). Un altro vantaggio di scegliere la carne di selvaggina è il suo alto contenuto di vitamine del gruppo B (B1, B2, B6 e B12), di niacina (PP) di biotina (H), così come vitamina A e D. (https://www.researchgate.net/publication/335676837_THE_ISSUES_OF_THE_RELATIONS_OF_HUNGARIAN_GAME-MEAT_PRODUCTION_AND_SELLING ).
È, poi, ricca di ferro, zinco e di acidi grassi polinsaturi, di acido linoleico coniugato (CLA). Il CLA esplica importanti caratteristiche nutrizionali sull’organismo umano mostrando proprietà antitrombotiche, anticancerogene, immunomodulatorie, diminuendo il rischio di contrarre il diabete e andando a ridurre i quantitativi di massa grassa a favore di quella magra.
Il nero e il “gusto di selvatico”
Il ridotto quantitativo di sostanze grasse intramuscolari può, però, influire negativamente sulla tenerezza, sulla succosità e sul colore della carne: tutti aspetti rilevanti che determinano l’accettabilità di questo prodotto da parte del consumatore. In particolare, il colore più scuro di queste carni può essere dovuto alla presenza di un maggior quantitativo di mioglobina nel muscolo e ai valori di pH più elevati che si registrano nel caso di una gestione non corretta della carcassa durante i processi a seguito dell’abbattimento: l’eventuale ferimento, il mancato dissanguamento e un trasporto non rispettoso dei principi basilari di gestione delle carni, influenzano la concentrazione di glicogeno nella massa muscolare impedendo un veloce e rapido abbassamento del pH delle carni, rendendole dure, scure e con un sapore decisamente “forte” e quindi inadatte a preparazioni di pregio (https://www.alpvet.it/2015/09/15/game-meat-hygiene-in-focus-irfgmh-edimburgo-2015/ ).
Il cacciatore formato ha ben presente il rispetto del benessere animale anche durante l’abbattimento e sulla gestione delle carcasse. Grazie all’utilizzo di celle di sosta in cui stoccarle per una corretta frollatura (tra 0 e 4 °C), si sono raggiunti risultati inaspettati riguardo la qualità sanitaria e organolettica del prodotto, incentivando anche i ristoratori a investire sulla selvaggina, servendola in modo innovativo e allontanandosi dalla tradizione che voleva la selvaggina cucinata esclusivamente sotto forma di stufati, brasati o gulasch dopo abbondante marinatura. Questa è una procedura che ha proprio la funzione di eliminare gli odori sgradevoli della selvaggina, annullando quelle molecole che tendono a sovrastare i pregi organolettici della carne. Alcuni ingredienti tipici delle marinature sono: olio extravergine di oliva, sale, zucchero o miele, vino (prevalentemente rosso), alloro (foglie o bacche), bacche di ginepro, rosmarino, timo, origano, scorza e succo di limone, pepe nero, aglio, cipolla, sedano, carote e così via.
Alla frollatura dovrebbe essere sottoposta tutta la selvaggina di taglia media o grande, mentre possono esserne esenti solo i piccoli uccelli. È un processo che permette di scolare tutto il sangue dalla carcassa, asciugare la carne, maturarla e ammorbidirla. Il tempo di frollatura varia in base alla condizione della carcassa (con o senza pelliccia, sezionata o intera, età e sesso dell'animale). I piccoli esemplari, come la lepre e i conigli selvatici, possono richiedere anche solo un paio di giorni, mentre i grossi animali non dovrebbero essere frollati per meno di una settimana. La frollatura della carne può anche essere effettuata per congelamento o sottovuoto. (continua).