Era una grande carpa il più antico cibo cotto di cui sia stata trovata traccia. Risale a 780.000 anni fa, e indica con certezza che l’uomo ha iniziato a cucinare centinaia di migliaia di anni prima di quanto testimoniato dai reperti archeologici trovati finora. A scoprirlo è stato un gruppo di ricerca internazionale guidato da Irit Zohar, dell’Università di Tel Aviv, analizzando dei resti trovati nel sito di Gesher Benot Ya’aqov, in Israele, descritti sulla rivista Nature Ecology and Evolution nel novembre dello scorso anno.
La cottura del cibo è stato uno dei grandi miglioramenti nella dieta umana, innovazione che ha permesso di poter facilitare la digeribilità dei cibi eliminando allo stesso tempo pericolosi patogeni, ma di cui non è facile definire con certezza i primi esempi. Vari indizi sembrano indicare che la cottura sia iniziata anche 1 milione di anni fa, ma finora le uniche prove davvero certe indicavano un periodo tra 400 e 300 mila anni fa. La selvaggina a tavola ha, dunque, radici profonde e anche nella nostra tradizione culinaria.
«Nei quadri dei grandi pittori c’è sempre la cacciagione», spiega Igles Corelli, maestro indiscusso della ristorazione italiana e volto noto di Gambero Rosso channel con il suo programma “Il gusto di Igles”. «Nei quadri dei Carracci, vedo frutta, verdura e cacciagione, vedo il creato». Qualche tempo fa se n’è uscito con un post piccato: “Ma se tutti gli stellati lavorano solo le verdure, i grandi prodotti italiani, ma soprattutto la caccia, dove vanno a finire?”. Ecco l’approfondimento: «Vedo che c’è la rincorsa al piatto estetico e che si inseguono le influenze esterne. Imponendo la moda, si fa spazio a cibi omologati e credo che ci siano potentati economici che stanno lavorando per le bistecche sintetiche o gli insetti. E, poi, non di solo cavolo freddo vive l’uomo. La grande cucina si è sempre misurata con la selvaggina, che ora è sparita dalle carte. Possibile che tutti abbiano sentito l’afflato etico verso gli animali? Se è così, non mi spiego l’affollamento dei fast food».
Anche la cacciagione di moda!
Eppure anche la cacciagione potrebbe essere di moda… «La moda è ormai una sorta di stile Michelin, è legata al vegetale e i giovani si trovano d’accordo, i giovani chef la sposano perché meno impegnativa rispetto alla carne della grande cucina. È più facile una verza della lepre. È certo che i vegetariani e i vegani vanno rispettati, ma non trovo corretto se fanno battaglie per imporsi. Al Bosco della Mesola, i verdi già 15 anni fa hanno fatto una campagna pro-cervo che ha rovinato il bosco perché troppi animali fanno disastri. Anche l’allevamento intensivo è dannoso: sono loro che producono 40% in più non noi che lo consumiamo, ma poi siamo obbligati a causa del prezzo che viene sempre concordato. Invece si dovrebbe produrre meno e produrre meglio. Oppure utilizzare meglio la carne di selvaggina che è carne di qualità».
Corelli, “romagnolo” di Argenta (Fe), 68 anni, è una importante figura di riferimento della ristorazione italiana. Il suo nome è legato indissolubilmente al mito del Trigabolo di Argenta dove per 14 anni, a cavallo degli anni ‘80 e ‘90, guida una giovanissima brigata di cucina, tra i suoi allievi anche Bruno Barbieri. Conquista 2 stelle Michelin e diventa uno dei ristoranti più importanti in Italia, le sue idee incidono in modo decisivo nell’evoluzione dell’alta cucina italiana. Nel 1996 apre il ristorante La Locanda della Tamerice, sempre nel Ferrarese, dove conquista un’altra stella Michelin; nel 2010 si sposta in Toscana dove diventa l’executive chef di Atman sino al 2017, e anche qui arriva una stella Michelin confermata poi quando il ristorante si trasferisce all’interno di Villa Rospigliosi (https://www.atmanavillarospigliosi.it/ ) a Lamporecchio (Pt). Dal 2018 è il coordinatore del Comitato Scientifico di Gambero Rosso Academy (https://www.gamberorosso.it/academy/ ). Ha scritto dodici libri di cucina e adesso fa consulenze, show cooking, aperture di ristoranti, eventi e risiede a Roma.
La caccia dello chef
Cosa pensa della caccia in cucina? «Come accade in natura, in cucina nulla viene trascurato ma trasformato attraverso processi specializzati. La selvaggina è un tema che è sempre stato nelle mie corde: mio nonno, mio zio erano cacciatori e hanno sempre rispettato il territorio, cosa che mi ha sempre entusiasmato. Oggi, grazie alla caccia controllata, il cacciatore è un po’ il detentore del territorio. Si abbattono gli animali con un metodo controllato, si portano al macello. Ora è tutto regolare ed è un peccato non poter usufruire e valorizzare un prodotto così di qualità. È stato dimostrato che nelle zone di caccia controllata la selvaggina è aumentata, e il territorio custodito meglio. Oggi gli chef hanno così a disposizione una materia prima ottima, con filiera anche italiana, e rispettosa dell’ambiente».
La filiera certificata in Italia è ancora lontana, nonostante qualche esempio virtuoso in Lombardia e in Emilia-Romagna. Come faranno le sagre estive italiane e i ristoranti del Centro-Italia durante tutto l'anno a proporre pappardelle al sugo di cinghiale? È carne che viene dall'estero oppure di provenienza ibrida. Dunque il nostro Paese comunque ci rimette... «Visto che c’è sovrappopolamento di fauna selvatica, e tra l’altro è carne buona, se l’abbattimento e le fasi successive sono controllati, riusciamo a rispettare il territorio e a togliere il “nero” che ancora oggi i ristoratori sono costretti a fare. È carne buona ma direi illegale, altrimenti devono prenderla da Ungheria e là chissà come viene trattata? Se ci sono filiere di carne di selvaggina in Italia, il risultato non può che essere interessante, anche per l’economia».
E poi c'è la questione della tradizione culinaria che mi pare preveda numerosi piatti a base di selvaggina o cacciagione. Si tratterebbe di una grave perdita culturale. «Il cacciatore in passato era costretto a fare cotture per sanificare i prodotti che poi mangiava, per questo le ricette della tradizione sono spesso intingoli con lunghe cotture e spezzatini. Ma in questo momento la carne proveniente dalla caccia di selezione che viene subito portata al macello si può consumare anche cruda, in ogni caso meno cotta è, meglio è. La macelleria Zivieri e anche Sant’Uberto forniscono molti ristoranti, i quali propongono tartare di cervo e capriolo. C’è la massima attenzione per l’aspetto sanitario: è un movimento che sta andando avanti e crea business. Tanti ristoranti hanno inserito quella cacciagione che è più facile da trovare, come il cinghiale, più difficili sono folaghe, gallinelle o germani o fischioni. Ma la cacciagione è come il tartufo: la gente è disposta a fare chilometri. Se poi nessuno vuole più il fagiano, va a finire che si smette di cacciarlo. I ricchi hanno sempre mangiato la carne di selvaggina, che è più saporita ed esclusiva. Per i poveri si è sempre trattato di integrazione della dieta. Mio nonno comunista, aveva un barchino rosso e andava rubare l’anguilla in valle. Doveva essere molto veloce: erano d’accordo con le guardie, ma ogni tanto dovevano beccare qualcuno… Un mio piatto di selvaggina degli anni Ottanta è molto ispirato al mio territorio e al Po, è germano ripieno di anguilla con salsa di frutti rossi». (7-continua)
Ricordando Filo
Petto di germano reale ripieno d’anguilla, salsa al sambuco, uva passa al Moscato.
Per i petti di germano reale ripieno: 4 petti di germano reale; 300 g di rete di maiale; olio extravergine di oliva; sale e pepe.
Per il ripieno: 120 gr di polpa di anguilla bollita in acqua aromatizzata con alloro; 60 gr di ricotta vaccina; 60 gr di pane bianco già in ammollo nel latte e strizzato; un rosso d’uovo; sale e pepe.
Per il morbido di patate: 300 g di patate lessate; 50 ml di brodo vegetale; 50 g di Parmigiano Reggiano, grattugiato; un cucchiaio di succo di limone; 50 ml di olio extravergine di oliva; sale e pepe.
Per la salsa al sambuco: 2 cucchiai di marmellata di sambuco; 1 cipolla bianca tritata; 1 cucchiaino di zucchero grezzo di canna; 4 cucchiai di fondo di germano; aceto balsamico tradizionale; aceto di vino bianco; una noce di burro; sale.
Per l’uva passa al Moscato: 50 g di uva passa; 100 ml di Moscato dolce.
(ingredienti per 4 persone)
Amalgamare la polpa d’anguilla, la ricotta, il pane strizzato, e il rosso di uovo, regolate di sale e pepe. Aprite i petti a libro e batteteli leggermente. Mettete un poco di ripieno d’anguilla al centro di ogni petto, condite con sale e pepe. Arrotolate i petti e chiudeteli con la rete di maiale. Rosolateli in una padella con un filo di olio e terminate la cottura in forno. Lasciateli riposare su una piccola griglia prima di tagliarli.
Passate le patate allo schiacciapatate. Aggiungete il Parmigiano Reggiano, il brodo e mescolate, versate l’olio a filo, condite con un po’ di succo di limone, regolate di sale e pepe.
Fate sudare la cipolla in una padella con una noce di burro. Aggiungete lo zucchero e lasciate caramellare. Sfumate con un po’ di aceto di vino bianco, aggiungete la marmellata di sambuco, il fondo di germano e fate restringere a fuoco basso. Omogeneizzate con il frullatore a immersione, passate al setaccio fine e regolate di sale, terminate con qualche goccia d’Aceto Balsamico Tradizionale. Ammollate l’uva passa nel moscato scaldato leggermente sul fuoco. Lasciate riposare per un’ora. Rimettete sul fuoco e fate restringere.
Stendete un cucchiaio di morbido di patata al centro dei piatti. Tagliate i petti farciti a medaglioni e appoggiateli sul morbido di patata. Nappate con la salsa e l’uva passa al moscato.