Il ristorante La Palta (https://www.lapalta.it/) stella Michelin dal 2012, in frazione Bilegno, comune di Borgonovo Val Tidone (Pc) è al limite della pianura piacentina: zona di caprioli, cinghiali e ultimamente anche cervi. Prende il nome da quella che, in dialetto piacentino, era la tabaccheria del paese, attiva negli stessi locali del ristorante. Che sembra una casa, con grandi finestre sul giardino e un ambiente caldo e accogliente. Accogliente come la padrona di casa, la chef Isa Mazzocchi, 55 anni, mamma cuoca e zia delle quali custodisce preziose ricette che rivede in chiave moderna. Tanta famiglia, ma anche tanto studio ed esperienza. Isa nasce in “osteria”, quando a otto anni aiutava a preparare tortelli e anolini insieme alla sorella Monica.
La sento descrivere i piatti e percepisco tutta la sensibilità e la passione che mette nel lavoro. Sarà l’orario, ma percepisco anche una certa acquolina… Cucina abitualmente la carne di selvaggina (come è raccontato nel volume “La caccia di Igles e dei suoi amici”, di Michele Milani http://www.cacciaecucina.it/scheda_la-caccia-di-igles.html ), tiene a trattare le materie prime personalmente e sono tutte del suo territorio, che promuove attraverso i suoi piatti…
«Sento forte il legame territoriale, sì. Le dico soltanto che nelle ultime settimane ho acquistato 4 caprioli e un cervo e posso solo aggiungere che è una vera fortuna avere a Piacenza un macello adibito alla selvaggina con tutti i controlli veterinari del caso. Prediligo selvaggina della zona e rispetto i cicli biologici e quelli del prelievo, adesso è il momento dei maschi classe 0 che sono gli ultimi. Acquisto la carcassa intera che poi seziono personalmente a seconda delle differenti preparazioni: le cosce per le tàrtare, le spalle per ripieni, ragù, polpette e stracotti, insomma per le lunghe cotture, anche se io adoro la carne cruda di spalla, ma bisogna togliere tutte nervature. Il più nobile carré appena scottato in padella. Purtroppo non riusciamo a reperire nella zona selvaggina da piuma, perché i cacciatori se la tengono».
Alla carne di selvaggina, ma non soltanto, ama abbinare le verdure, che rendono speciale ogni materia prima. In modo molto meticoloso!
«Ovviamente da ieri è nel menu la tartara di capriolo che serviamo con cialda aromatizzata al miele di farina di castagne e mais, con essenza di prugnolo e un mix di erbe di bosco, di campo. Per me il selvatico è nella sua terra anche quando viene trasformato in cibo umano; perciò, vado alla ricerca del suo nutrimento, di cosa è ghiotto. Questi elementi sono perfetti per l’abbinamento: provo con nocciole, noci, bacche, erbe. Io vivo in mezzo alle campagne, ho possibilità di attingere a tutti questi prodotti che sono naturali e crescono spontaneamente. Le bacche di sambuco sotto sale stanno bene con la selvaggina, come certi fiori o certe note erbacee. E ogni stagione ha le sue peculiarità: la marmellata di bacche di rosa canina, con quelle note di asprezza, è perfetta con la dolcezza della carne di selvaggina».
Che cosa rappresenta il “selvatico” oggi? Come sapori, ma anche come possibilità di apprezzarne la qualità?
«Il selvatico oggi è possibilità di assaggiare una cosa unica, diversa, perché si alimenta in base al territorio. Il fatto che siano liberi di vivere e nutrirsi permette di poter servire un pezzo di carne unico nel suo genere. Dal punto di vista nutrizionale non sto a dire, sappiamo benissimo che si tratta di carni di valore superiore».
Cosa pensa della caccia e della filiera delle carni di selvaggina?
«Naturalmente io sono sempre stata in contatto con la carne e con la selvaggina, sono nata in osteria e si può immaginare. Tante volte odiavo questi animali morti in cucina. Ma poi tutto ritorna: quei gesti, quelle usanze di cura e rispetto per gli animali, che significa usarne tutte le parti. Non c’è niente di scorretto e illegale nella caccia se tutto è controllato e gestito come si deve. L’animale deve essere abbattuto e trattato secondo le regole, il mio rispetto per l’animale è usare tutto, persino le interiora se conservate in modo giusto e anche le ossa per i brodi. La carne di selvaggina è una grande opportunità, consente di realizzare tanti piatti con parti diverse».
Il cinghiale può rappresentare una grande opportunità qui nel Piacentino, ma anche in tutta Italia. Lei lo cucina abitualmente?
«Il cinghiale adesso non è in menu, ma lo uso. Devo dire che non ha così tanto appeal sulle persone come gli altri selvatici. Credo che il problema risieda negli incroci fatti a suo tempo e per questo la carne non ha il colore intenso come dovrebbe essere, a volte è anche grassa, cosa che non accade per gli altri ungulati. I cinghiali stanno invadendo il territorio anche qui. L’invasione rappresenta, però, una grande opportunità e dà modo di lavorare un prodotto veramente sano con gusto e profumo per me straordinario: quando preparo i brodi vengono fuori gli odori del territorio e mi sto rendendo conto sempre di più che a furia di insistere stiamo cancellando la memoria di un cattivo odore che dipende da carcasse non trattate nel modo corretto. Quando abbiamo cominciato qui al ristorante c’era titubanza perché non seguivamo i trattamenti tradizionali. Anche ieri sera diversi tavoli hanno voluto oltre al menu un assaggio di tartara di capriolo e il cannellone di cervo sta andando moltissimo. L’anno scorso in menu c’era un toast con cervo sott’olio, sotto sale e pressato, pane naturale, erba brusca e a parte bicchierino di brodo per andare a finire il piatto: non le dico quanti ne abbiamo venduti, era un giusto abbinamento. I giovani in particolare sono curiosi».
Cosa resta della tradizione della cucina di selvaggina?
«I piatti tradizionali esistono nella trattorie tipiche che hanno sempre lavorato in questo modo e credo sia giusto mantenere queste tradizioni perché sono specchio di cultura territoriale. Quello che facciamo noi è invece una cosa in più che riguarda la tecnica e gli abbinamenti che mettiamo a disposizione del prodotto e dei clienti. Sicuramente le cotture tradizionali rovinano un po’ le parti nobili e nemmeno sono adatte: carré o coscia buttate insieme ad altre parti… C’è da lavorare ancora tanto sulla cultura. Poi anche gli animali sono cambiati: 30-40 anni fa si abbattevano quelli più tenaci e rudi, oggi sono in linea con la giusta maturazione».
Ci descrive i cannelloni di cervo con formaggio stagionato di capra alla fiamma e salsa verde?
«Per il ripieno dei cannelloni che ho adesso in menu uso le parti meno nobili del cervo: spalla o collo cotti a lungo, piano piano con ginepro, alloro e cannella. Portati a cottura, la parte liquida del sugo viene fatta rapprendere con pane grattato e la carne spolpata dall’osso, macinata e mescolata e a me piace senza formaggio, solo con uovo o e pepe. Sopra i cannelloni metto una marinata di coscia di cervo sotto sale, come una carne salada, con sale di Cervia e un misto di sette pepi, con note agrumate, a fettine sottili con foglioline di pimpinella e sentore di mallo di noce. Poi il cannellone è gratinato con formaggio stagionato di capra a pasta dura». (10 – continua)