"Ci ispiriamo al profumo del mare, ma ci piace cimentarci anche nella selvaggina” è questa la semplice filosofia del ristorante Uliassi (https://www.uliassi.com) aperto dal 1990 sulla banchina di Levante del porto di Senigallia, in provincia di Ancona. Mauro Uliassi 65 anni, con la sorella Catia, è alla testa di un team di oltre 30 persone. Il ristorante è valutato con 3 stelle Michelin, 5 cappelli Espresso, 3 forchette del Gambero Rosso.
La caccia è protagonista della cucina di Mauro Uliassi. Da bambino andava a caccia con suo padre, poi cos’è successo?
«Da ragazzo l’ho fatto smettere, avevo una fidanzata tedesca che aderiva alle posizioni dei verdi. L’ho sfinito finché non ha appeso la doppietta al chiodo. Ma poi ti rimangono dentro tutti riti che sono ancestrali, qualche cosa di antico: la prima carne è stata cacciata, il pesce in qualche modo viene cacciato. Caccia e pesca sono nel Dna collettivo. E io conservo ricordi fantastici delle levate mattiniere, delle cartucce fatte in casa, delle colazioni nelle fattorie con gli amici con vino rosso e castrato alle cinque del mattino. I cani, i richiami, la selvaggina caratterizzata da un misto di odori indimenticabili: il selvatico, la polvere da sparo, il sudore delle camminate. Sono tutti elementi vogliamo dire anche romantici che nella mente di un bambino restano, impressionano. La caccia per me è un ricordo fantastico, che ho recuperato. Se avessi fatto qualsiasi altro mestiere forse non ci avrei più pensato, ma facendo il cuoco è inevitabile: si cucina quello che si è e che si è stati. E poi c’è la questione del territorio che influenza molto la mia cucina. Riproporre la cacciagione qui in riva al mare, a Senigallia, è qualcosa di bello: qui tutti erano cacciatori e pescatori. Non ho fatto altro che riprendere le tradizioni delle casupole a bordo mare dei marinai: davanti alla casupola c’era la barca con l’argano e, dietro, gli orti con il maiale, le galline, l’oca, i piccioni. Poco più oltre, oltre la ferrovia e l’Adriatica era disseminato di acquitrini e fossi: c’erano rane, lumache, anguille. E la selvaggina. Tutto un parterre di ingredienti che facendo il cuoco non potevo ignorare».
Uliassi è stato senz’altro il primo e forse l’unico chef italiano a proporre un menu di 9 portate, 8 delle quali dedicate alla caccia. E alcune portate celebrano il connubio tra pesce e selvaggina: tartare di lepre, ricci di mare, olio di ginepro; petto di fagianella, ostrica, olio di perilla e semi tostati; colombaccio crudo, rapa, liquerizia, ciliegie ghiacciate, olio di rosmarino bruciato e poi tagliatelle, murici e boccone di capriolo.
«Ogni anno cambiamo, ma in tutti i menu che proponiamo c’è comunque sempre un piatto di selvaggina. Nel tempo ne abbiamo presentati più di 25-30. Il primo piatto nel 1990 era tagliatelle con murici e tordi, adesso ci mettiamo il capriolo, ritagliato come un piccolo petto di tordo. Il connubio tra pesce e selvaggina c’è e nasce da riflessioni successive, è una necessità che è venuta in tempi più recenti. Anche nel pesce ci sono molte preparazioni che prendono ispirazione dalla terra: le contadine usavano gli stessi condimenti della carne, così sono nate le rane in porchetta e il salmì poi è finito sul pesce».
Come cucina la selvaggina nei piatti più tradizionali? Per esempio nel colombaccio alla marchigiana o nei ravioli di patate burro e salvia, con finanziera di selvaggina e nocciole caramellate?
«C’è anche la Royale col fagiano, oppure l’oca. Le Marche sono una regione votata alla caccia. L’idea della selvaggina molto modificata, bardata, cucinata a lungo, deriva dall’esigenza di conservazione e dalla tecnica. Noi abbiamo capito che se prendi una quaglia e la cucini direttamente in pentola succede che i tendini tirano la struttura del corpo e dopo un’ora il tendine ha mollato, ma la carne è stracotta, allora abbiamo preso a smontare completamente gli animali, e così abbiamo la possibilità di cucinare su una plancia esattamente come un rombo in 4-5 minuti al massimo: le carni restano tenere, ricche di gusto e si possono anche mangiare in tartàre come si fa con la carne bovina. Noi cuciniamo proprio in questo modo, con un’interpretazione diversa».
Anche il senso e il significato della caccia e della selvaggina oggi sono diversi, deve essere considerata una risorsa sostenibile…
«Il limite tracciato dalla nostra legislazione è che la selvaggina non può essere commercializzata. Fino a cinque anni fa prendevamo in Scozia grouse e beccacce, alzavole, germani, lepri, qualsiasi cosa, da aziende certificate, spiumati e con interiora, 7-8.000 pezzi addirittura. Poi la legge europea ha vietato di acquistare selvaggina sparata con il piombo e abbiamo dovuto supplire con animali allevati. Unici selvatici che possiamo usare senza quel vincolo sono i colombacci che arrivano dalla Francia. La bellezza della caccia erano proprio gli animali selvatici, vissuti in libertà; tuttavia, la selvaggina ha sempre più o meno gli stessi tessuti e lo stesso sapore, anche gli allevati. Ti puoi divertire come vuoi a cucinarli, ma occorrono conoscenza e capacità».
Le cose stanno un po’ cambiando e si parla con maggiore consapevolezza di filiera italiana della carne di selvaggina. A Caccamo, in provincia di Macerata, c’è un centro di lavorazione della selvaggina che rispetta le norme stabilite dalle direttive europee. L'affermarsi della caccia di selezione e, soprattutto, del controllo del cinghiale nelle aree dei Parchi può mettere a disposizione considerevoli quantitativi di capi.
«Sarebbe auspicabile una filiera del territorio, tuttavia noi non consumiamo tanto cinghiale né tanto capriolo, cuciniamo di più la selvaggina di penna».
Da lei vengono cacciatori? Che tipo di pubblico sceglie la selvaggina? I giovani?
«Direi che un 5% dei clienti sceglie il menu caccia, perché sono curiosi oppure hanno la magia di un ricordo che vogliono rivivere. Oppure sì, molti sono anche cacciatori. I giovani lo scelgono perché magari la caccia è un ricordo del nonno».
Il menu caccia di Uliassi è su prenotazione, inteso per tutto il tavolo. È fatto di sapori che riattivano ricordi e comunque incuriosiscono e conquistano, fatto di differenti consistenze e colori nel connubio tutto marchigiano tra cielo, terra e mare. (13-continua)
Colombaccio scottato, tabacco, cardamomo nero e pompelmo asciugato
Il piatto è servito con Lagavulin a parte (anche sul cucchiaino), per prolungarne le sensazioni. Il petto di colombaccio per 20 secondi all’unilaterale sulla piastra, cardamomo nero e fave di cacao per la consistenza, Lagavulin per la sensazione di torba, brodo e spuma di tabacco che seccano la gola. A evocare diversamente il fuoco e l’odore che impregnava le divise dei cacciatori, lasciate nell’armadio per settimane fra una battuta e l’altra. Più il mirtillo essiccato e il pompelmo ad arrotondare.