Caccia d’altri tempi: le cinghialate di “Mitraglietta”

Adelio Ponce De Leon con l’immancabile pipa e uno dei suoi stravaganti copricapi.

Adelio Ponce de Leon (1915-2011) è stato uno dei più singolari e conosciuti personaggi del mondo della caccia italiana. Lombardo e discendente da una nobile famiglia d'origine spagnola, ha avuto una vita densa di esperienze: avvocato, giornalista dal 1940, corrispondente di guerra (nel 1936 in Africa orientale, nel 1940/45 nella seconda guerra mondiale e nella guerra di liberazione), carrista, paracadutista, decorato di croce di ferro tedesca e di medaglia al valor militare per fatti compiuti durante la Resistenza,  “Mitraglietta”, questo è il soprannome che si portava appresso dal lontano 1936 quando dalle pagine di Diana venatoria raccontava le sue imprese di caccia in Africa orientale, è stato senza dubbio la miglior penna dell'editoria venatoria italiana del ventesimo secolo: ha scritto migliaia di articoli, diciotto volumi dedicati non solo alla caccia ma anche al l'ornitologia ed all’etologia. La sua abilità di scrittore da sola basterebbe a collocarlo nel ristretto olimpo degli autori di cose di caccia, ma ciò che rende unico questo personaggio in “un universo improbabile ai più” come acutamente lo definì Rodolfo Grassi, non è solo la sua capacità di scrivere unita l'anzianità di servizio, ma anche la simpatia, il pensiero sempre svelto ed il gusto nel trovare la battuta.

Il cinghiale di Pattada

Esaudisco il desiderio covato tanti anni di recarmi a caccia in Sardegna. Appena sbarcato mi fò in quattro per trovare amici cacciatori, cosa non difficile poiché di caccia quasi tutti i sardi se ne intendono. Vedendoli passare a cavallo, fucile a tracolla nel costume sgargiante e con il copricapo pendente sul viso, il pensiero corre ai banditi delle leggende dell’Ottocento. Ma il sardo è di buona pasta e vive con una sola preoccupazione: far conoscere all'ospite tutto il bello e il buono della Sardegna. Un maggiorente di Ozieri, Pietro Mannu, appena conosciuto, mi chiede: “Hai mai bevuto il vino di Oliena”?

- No

“No? - e pare che il mondo debba finire perché ho detto no.

Poi spiega: “D'Annunzio un tempo venne qui nell'isola, mangiò pernici cucinate alla sarda e bevve tanta Vernaccia e tanto Nasco da farsi portare a casa in barella come un morto”.

Questo non lo sapevo ma il vecchio non mi dà tregua: “le arance di Muravera sono le migliori d’Europa” dice senza ammettere discussioni. Mi difendo annuendo, egli implacabile incalza: “Ha provato le nostre aragoste, le più saporite del mondo”?

- Sì, mento sfacciatamente pensando che forse qualche volta quelle del Biffi a Milano arrivavano dalla Sardegna. Da ultimo arriva la sacramentale domanda di ogni sardo quando si discute di caccia “è mai stato a caccia del cinghiale”?

Faccio umilmente osservare che non ne vivono allo stato selvatico in Lombardia. “Grave lacuna”, sentenzia Mannu dolorosamente colpito, “Si tenga pronto per la nostra prima battuta, ne avrà un ricordo per tutta la vita”.

Cacciatori di cinghiali d'altri tempi a Pattada, in Sardegna.

Non posso esimermi nonostante io preferisca andare a pernici e beccacce tanto abbondanti nella zona; tuttavia, la possibilità di fare la conoscenza con il re della fauna sarda mi solletica. Così cominciano le mie fatiche: partenze notturne molto prima dell'alba da Pattada, villaggio appoggiato su un picco nel Lugoduro, in compagnia di Mannu e di altri cacciatori, per giungere al brillume nel luogo della battuta. 

Le uscite si susseguono di giorno in giorno e non conto più i chilometri di montagna percorsi tra pietraie e boscaglie: il cinghiale è come l'araba Fenice, c'è e non lo si vede. Non riesco mai a tirargli una fucilata, lo si sente, lo si intuisce, ma sparisce sempre tanto da dare l'impressione di possedere passaggi sotterranei o aerei. Discussioni si accendono al ritorno di ogni battuta, naturalmente la colpa dell'insuccesso cade su di me perché dicono che non sono rimasto al posto assegnatomi o sono giunto in ritardo oppure ho fumato o mi sono mosso. Infine, perdo la pazienza, rinuncio alle levate notturne e guai a parlarmi di cinghiali e di battute allo zannuto animale.

Eppure, il cinghiale, un bel maschio dall’ispido pellame bruno nerastro, un campione di razza, l'ho ucciso. Il povero animale forse era stanco della vita o era un buono che anelava di accontentare la brama di un cacciatore deluso. Mi inerpicavo sul tortuoso e ripido viottolo verso il paese, quando mi venne incontro di corsa Nanneddu, giovane pastore, il quale più a gesti che a voce mi dice: “il cinghiale!!! l'ho veduto io e lì nel bosco al di qua del fiume” e mi indica il querceto folto che inizia al lato del viottolo. Sciocco!!! e suppongo che mi voglia giocare uno scherzo, ma tante sono le insistenze di Nanneddu che per levarmelo dai piedi abbandono il sentiero e mi inoltro nel bosco più credulo di trovare lepri che non il cinghiale. Districandomi tra i rovi tento di portarmi in posizione di maggiore visibilità; il cane, un orribile bastardo, scompare alla vista, come al solito si è allontanato ed è inutile chiamarlo perché avrà raggiunto il fiume e non mi sentirebbe. Mi si profila davanti un grosso masso coperto di edera, le foglie a toni cupi si slanciano formando festoni e ghirlande, mi aggrappo all'edera e mi tiro su a fatica sul masso. Mi esce un sospiro di soddisfazione, lo sguardo può spingersi lontano fino ai pioppi che s'alzano ritti ai margini tortuosi del Rio Mannu. Di colpo l'occhio si posa su qualcosa di oscuro che l'erica rossiccia male mimetizza: osservo meglio. Dio mio!!!! un cinghiale sì, è proprio lui e mi sta sotto a non più di dieci metri accovacciato come una lepre all'addiaccio. Attimi di spasimo e di passione. Febbrilmente cerco le cartucce a palla, il pensiero che allo scatto di apertura e chiusura del fucile l'animale scatti via mi dà il tremito. Finalmente infilo le cartucce nelle canne. Chiudo: un dubbio. Spareranno? le ho fabbricate io e me le sono tenute tanto tempo e sono gonfie per l'umidità.

Trattengo il respiro. Miro un attimo alla schiena e poi TRAM!!! due colpi quasi simultanei. Il cinghiale ha un balzo e si dibatte furiosamente. Non mi muovo, non riesco a muovermi, l'emozione mi inchioda alla roccia. All'improvviso sbuca Nanneddu e si getta sull’animale ormai stecchito pugnalandolo ripetutamente allo stomaco. “Che fai incosciente?” gli grido. “Gli ho spaccato il cuore, ora sì che è morto” afferma convinto. Invece ha tentato di rovinargli la pelle. Il ritorno in paese è una festa.  Nanneddu precede tenendo il ciucciariello per le mani sul quale è buttata la preda.  Grida a tutti “abbiamo ucciso il cinghiale” penso celii, ma poi pretende davvero la sua parte.

In Sardegna si usa così, dice, e si porta a casa mezzo cinghiale.

Sulle rive del lago Tonga in Algeria

Alcuni dei tanti libri sulla caccia scritti da Adelio Ponce de Leon.

Angelo Biscaldi, personaggio bizzarro della caccia milanese negli anni '70, riesce a completare un charter per la Federcaccia di cacciatori lombardi e portarli in Algeria nella Sebcha del lago di Tonga, ove palmipedi e trampolieri pullulano. Tutti fanno una scorpacciata di tiri, chi dalle barche, chi guazzando nella palude. Ma nella compagnia una decina di anziani, incapaci di procedere nel falasco, rimasti ai margini della palude insoddisfatti mugugnano. La mente del Biscaldi, già ottenebrata da arteriosclerosi divampante, organizza per loro una battuta al cinghiale che si dice sia abbondante nelle colline che sovrastano la palude.

La battuta parte dall'alto della boscaglia verso la piana che con una stradetta divide il monte dalla palude, i validi si uniscono ai battitori, decine di arabetti che con pietre e bastoni contro scatole di latta e urla disumane fanno un baccano indiavolato indirizzando i selvatici verso il basso. I vecchietti, per non affaticarli, vengono sistemati l'uno a dieci metri dall'altro in linea orizzontale sulla stradetta alla base del monte. I cinghiali sono tanti, incalzati si buttano verso il basso con un fragore di boscaglia sbattuta e di rami spezzati. I vecchietti attendono fucile pronto al tiro, il fragore si avvicina sempre più assordante e qualcuno incomincia ad impensierirsi. Improvvisamente in gruppi e isolati si catapultano sulla strada una quarantina di cinghiali correndo in massa e veloci sui vecchietti. Non hanno nemmeno il tempo di sparare. Alcuni sono terrorizzati, uno sviene dalla paura. Il primo che si riprende balbetta tra i colleghi atterriti: “fortuna che i cinghiali ci hanno schivato, altrimenti sarebbe stata la fine”.

Cinghialesse giganti a Topusko, in Bosnia Erzegovina

Una lettera ricevuta dall’autore in cui Adelio presenta una tesi di laurea sulla caccia di una giovane studentessa.


Lungo la strada che si snoda sulla colma di una collina sovrastante un vallone folto e intricato un cacciatore è appostato al termine di ogni valletta. Non si sa perché la battuta al cinghiale viene dal basso come se l’ungulato si comportasse come una lepre. I battitori vengono verso l'alto facendo un fracasso indiavolato. È novembre; boschi e cespugli privi di foglie lasciano intravedere il terreno rossiccio. Le grida e i suoni si intensificano ogni volta che un cinghiale è stanato e viene spinto verso le bocchette ove siamo appostati. Li vediamo giù al pulito in fondovalle, fanno poche decine di metri ma poi sembra che sappiano che su in alto vi è il nemico e forse la loro morte, preferiscono girare e affrontare i battitori e passare tra loro e tornare verso il basso. La battuta senza risultato dura da ore e stiamo per abbandonare quando echeggia una fucilata seguita da altre quattro in rapida successione. Udiamo grida e urla di gioia. Accorriamo. 

Rosolino, marchigiano di un piccolo paesino sotto Pesaro, la caricatura di un Nembrotte, alto non più di un metro e cinquanta, magro e del peso di circa cinquanta chili con una Browning di quasi 5 kg che a fatica sorregge tra le mani, esplode esultanza. Una cinghialessa di quasi duecento chili ha avuto la sfortuna di capitargli davanti e all'improvviso a meno di dieci metri e fermarsi. Ora è lì per terra sforacchiata da cinque Brenneke e sgocciola abbondante sangue sul sentiero. Il piccolo Tartarino marchigiano si fa fotografare davanti dietro e sopra il trofeo troppo grosso per lui. Al korana di Karlovac si ferma solamente il tempo per caricare sul suo bianco Maggiolino Volkswagen la cinghialessa con la pancia sul tetto e le zampe penzoloni legate ai lati delle portiere; l'immensa testa pensa pende sul davanti sgocciolante sangue sul parabrezza. Una visione allucinante. Rosolino parte e attraversa Croazia e Slovenia; al confine a Trieste lo vogliono fermare ma ha i certificati sanitari in regola. Lungo la Romea e la Riviera adriatica transita nei paesi tra la folla orripilata per il macabro carico; il sangue ormai raggrumato annerisce di un colore nero bluastro la carrozzeria. Al paese, preceduto da una telefonata, è applaudito nel centro della piazzetta dagli amici cacciatori e compaesani per l'ultima documentazione fotografica. Un ricordo da annoverare tra gli annali gloriosi del paese.

Marrakech in Marocco

Uno degli ultimi lavori di Adelio Ponce de Leon.

Giancarlo Crespi è fermo ai margini della boscaglia alle falde dell’Alto Atlante. La battuta al cinghiale è sul finire. Ha già padellato un cinghialotto che d'un balzo si era defilato dietro i cespugli. D'un tratto gli si presenta davanti a pochi metri un maschione. Vede il cacciatore si rigira e fugge. Gianfranco rapido gli dà una fucilata. L'animale percorre pochi metri poi si accascia negli spasmi dell'agonia. Accorrono gli amici che si congratulano con lo sparatore che racconta con particolari suggestivi il suo tiro. Si osserva la preda da ogni parte, davanti, dietro, sopra, sotto ma l'animale non presenta segno alcuno di ferita. “L'hai padellato -commenta Mitraglietta - è morto di infarto o di spavento”. “Taci sciocco e saputello - dice infuriato l'assessore milanese - non dire le solite baggianate”. Arriva il comandante Baykoff, russo bianco che da anni è il capo delle cacce reali marocchine, anche lui osserva l'animale, lo gira e lo rigira poi si alza si avvicina Gianfranco e solennemente esclama: “Exceptionnel Monsieur, compliments vous l’avez frappé just eau centre du cul. “Che culo! - urla Mitraglietta - per il culofilo hip hip hip hurra”. Hurrah, risponde frenetica la compagnia di amici!

Cerveteri, nella Maremma laziale

Uno dei più famosi libri di Adelio Ponce De Leon, pubblicato dall’Editoriale Olimpia all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorsa.

La macchia composta di marrucheto e roveto con impennate di querce, ontani ed altri alberi sta di fronte ai cacciatori nella tenuta dei principi Torlonia a Geri, luogo di tumuli e vestigia etrusche e romane. Di lontano si sentono i braccaioli che incoraggiano i cani alla ricerca, mentre il capo caccia a cavallo dirige bracchieri che comandano a gran voce i cani nella ricerca e nell’inseguimento, destreggiandosi veloci non si sa come nel folto della macchia. La canizza infuria, braccaioli e scaccia urlano. Qualche fucilata. La canizza imperversa e ogni tanto si avvicina, ma tanto io che Popi non riusciamo a fare una fucilata. Al raduno nell'antica casa di caccia manca Mario Poltronieri, il super telecronista della Formula Uno, neofita della caccia e più ancora della cacciarella. Temiamo sia disperso, invece arriva seguito da due portatori che trascinano un cinghiale di quasi cento chili. Al primo colpo della sua vita ha fatto centro. Viene subito condotto a subire il rito maremmano, tramandato da secoli, del primo cinghiale ucciso. La preda di Mario viene assicurata a robuste stanghe con le zampe posteriori testa all'ingiù e subito ha inizio l'operazione di squartamento. Le interiora vengono gettate ai cani famelici che se le sono meritate. Il bracchiere con un coltellaccio spacca il cuore del cinghiale e vi immerge le mani traendole lorde di sangue. A Mario, trattenuto con forza a braccia, vengono spalmate le guance, la fronte, il viso, il collo con il sangue ancora caldo tolto dal cuore della sua vittima. Nella tavolata della cinquecentesca sala del castello, Mario ha il posto d'onore alla destra della principessa Anna. Alla sinistra Remo Faustini gran maestro della caccia e della riunione. Il sangue sul viso e sugli abiti di Mario si è raggrumato ma gli è proibito lavarsi prima della fine del simposio. Carni allo spiedo cotte nel grande camino, poi salumi, salsicce pepate, polli, oche, formaggi pecorini, caciotte.

La principessa porge come ormai è un rito ogni anno, a Mitraglietta, su un autentico piatto etrusco una ricotta di bufala e un vasetto di miele scuro dei castagneti della tenuta. “Usque ad finem” dice la principessa: Mitraglietta versa il contenuto del vaso di miele sopra la ricotta poi fa un miscuglio dorato. “Usque ad finem” risponde Mitraglietta, e tra la sorpresa, la meraviglia e l'orrore finisce il piatto di oltre un chilo di ricotta mielata senza battere ciglio. È il momento del Falerno, il vino cantato da Catullo, che si unisce ai vini bianchi dei castelli di Montecompatri, di Rocca Priora, di Monte Porzio Catone. La festa è finita