Nato “sotto il segno” della gestione, anche l’hunter europeo desidera ormai prede nuove e difficili con cui confrontarsi; emozioni selvagge da conservare come trofei nella bacheca dei ricordi. Tante le mete, e ancor di più le specie animali. Molte usuali; patrimonio interiore di ogni cacciatore che almeno una volta le ha sognate. Altre “esotiche” e inimmaginabili; in grado di far bollire le tempie e seccare la gola anche al più scafato professional per le promesse d’avventura che sono in grado di regalare.
Parafrasando Pascoli possiamo dire che “c’è qualcosa di nuovo oggi, nel mondo di Artemide, anzi d’antico”: la caccia grossa, dopo anni – forse secoli – d’oblio, è tornata a rifiorire dappertutto.
Non è un fatto originale tuttavia; vasi attici e pitture murali etrusche, incisioni rupestri e mosaici romani e miniature medievali, arazzi e dipinti rinascimentali, stanno tutti a dimostrarci come anche la tradizione venatoria mediterranea per lungo tempo sia stata incentrata sul confronto “grande” animale-cacciatore
Da una parte ungulati, plantigradi, lupi e linci. Dall’altra, in tutte le sue fogge, con tutti i sistemi, le tecniche e le armi che via via il progresso gli forniva, sempre lui, il cacciatore; custode sapiente di una tradizione immortale.
Uomo differente, stregato dalla malia della selva e devoto al culto di tutti gli dei dell’avventura.
La contemporaneità vuole che in un territorio fortemente antropizzato, il cacciatore a palla sia soprattutto il gestore – mezzo biologo e mezzo avventuriero – di un contingente faunistico concepito come “capitale”; e ciò è giusto.
Chi può negare tuttavia che spesso, in quegli attimi in cui si prende la carabina dalla rastrelliera, si perlustra in modo attento e circospetto la campagna in cerca di tracce, in quelle lunghe attese in cui ci si apposta in luoghi che conosciamo meglio di casa nostra – chi può negare, dicevo – che spesso la fantasia ci rapisce lontano, verso “terre nuove e cieli nuovi”.
E in un nonnulla – possiamo essere nel “nostro” Appennino o nelle “nostre” Alpi- improvvisamente – ritornati ragazzi – con gli occhi della mente iniziamo a viaggiare.
Eccoci dunque in territori remoti e inesplorati, orizzonti di caccia in cui limiti e confini esistono solo per essere superati, lande del pianeta dove la civiltà – ringraziando il cielo – non è mai giunta né mai giungerà; …e a migliaia prosperano animali selvaggi di specie “esotiche”.
L’Africa di Hemingway e Smith innanzitutto, con le sue suggestioni di grandi “cacciatori bianchi” perduti in mille avventure nella savana sulle tracce di leoni ed elefanti, bufali cafri, leopardi e rinoceronti; il mitico “Big Five”, che tra gli ocra della terra e il blu di spazi aerei sconfinati, prende l’anima ed i pensieri di ogni uomo che sappia ancora immaginarsi vero cacciatore.
L’India misteriosa poi, che basta figurarsela e siamo tutti Jim Corbett, il più grande professional di tutti i tempi, capace di spendere una vita cacciando in jungle impenetrabili fiere antropofaghe dall’astuzia sovrumana, quali le terribili tigri del Bengala.
Terre remote rese prossime da quella specie di magia che è la grande letteratura.
Grandi animali che tutti nella nostra gioventù abbiamo messo tra i trofei di quella bacheca fatta d’anima e di vento della nostra fantasia.
Luoghi e creature che “ci sono appartenuti” quando sapevamo volare e avevamo una casina sugli alberi nell’Isola-che-non-c’è.
Luoghi e creature che “sono stati nostri” almeno quanto un grande cane dal cuor di leone e amico dei lupi, nell’era in cui “vivevamo” cercando l’oro dell’avventura in una capanna nelle foreste ghiacciate del Nord America; …e il suo nome era Buck.
È dunque giunta l’età della ragione e con essa il ritorno dei grandi ungulati, e a noi che eravamo cacciatori di penna è stato insegnato a tirare a palla.
La natura ci ha chiesto una mano per aiutarla a conservare la sua solenne armonia.
Ogive e canne rigate, ottiche e telemetri hanno saputo prendere nel nostro cuore lo stesso spazio occupato per anni da borre, pallini e tradizionali fucili ad anima liscia.
Caprioli per i più, ma anche daini, cervi, camosci, cinghiali e mufloni sono divenuti il “pane quotidiano” con cui ci si è abituati ad “incrociare i ferri”.
Era naturale che, come già avvenuto per la “penna”, hunters in numero sempre crescente iniziassero infine a cercare il confronto con specie di selvatici diversi in luoghi “foresti”; in quella che non è una semplice caccia di trofei, ma d’emozioni.
Un continuo mettersi alla prova confrontandosi con “l’estremo” in tutti i suoi aspetti.
Non foss’altro per permettere a “ragazzi di tutte le età” di continuare a sognare!