Nella storia
Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,
lepri levare, ed isgridar le genti,
e di guinzagli uscir veltri correnti,
per belle piagge volgere e imboccare
assai credo che deggia dilettare
libero core e van d’intendimenti!
Ed io, fra gli amorosi pensamenti,
d’uno sono schernito in tale affare,
e dicemi esto motto per usanza:
"Or ecco leggiadria di gentil core,
1per una sì selvaggia dilettanza
lasciar le donne e lor gaia sembianza!".
Allor, temendo non che senta Amore,
prendo vergogna, onde mi ven pesanza.
È Dante Alighieri in uno dei suoi sonetti giovanili che ci “dipinge” questa scena: i cani che vi compaiono da protagonisti sono italiani che più non li si può, dato che a parlarcene è il padre delle nostra madrelingua: ma sono bracchi...?
Ci risponde così Lucio Marzano, uno dei più grandi esperti in assoluto della razza: “col nome Bracco si definivano nel medioevo i cani da caccia in generale, sia quelli da seguita che quelli da sangue, e questo in tutta Europa. Li chiamavano con un nome dalla radice comune: Braco in Spagna, Braque/Brachet in Francia, Brak/Brache in Germania, e Brac in Inghilterra.
Le prime citazioni sono di Brunetto Latini (il maestro di Dante) e risalgono al 1265:"gli altri cani son Bracchi, con orecchi pendenti e grandi e conoscono al fiuto ove passa bestia o uccello". Dalla descrizione del Latini si evince che ancora il nostro non era un cane da ferma.
Anche Dante parla dei Bracchi e li cita nel Convivio: "…il Bracco deve avere buon naso"e nel suo sonetto di cui sopra: "sonar bracchetti e cacciatori aizzare…".
Nel ‘Trecento abbiamo notizie precise dell’esistenza di Bracchi fermatori da rete e da falco, come si vede per esempio nel famoso affresco del Lorenzetti a Siena: cani che indicavano la selvaggina con la ferma, attendendo che uomini a cavallo o a piedi ricoprissero con la rete cane ed uccelli; o che segnalavano la selvaggina fermandosi, in modo che il falconiere apprestasse il falco per liberarlo appena gli uccelli si fossero messi in ala.
Fra il ‘300 e il ‘500 il Bracco fu allevato da tutte le casate nobili italiane, che ne andavano molto fieri e li utilizzavano per preziosi omaggi valutandoli al pari dei cavalli da sella. I Gonzaga furono famosi allevatori di Bracchi, a Milano Barnaba Visconti teneva migliaia di cani: Bracchi, levrieri e mastini, nella famosa “Ca’ di can”, e molti altri erano affidati ai “bracchieri” che periodicamente dovevano presentarli e se i cani erano troppo magri o troppo grassi, i custodi erano sonoramente bastonati.
Con l’avvento delle armi da fuoco portatili, nel 1500, il cane da ferma conobbe un grande sviluppo e a quel tempo non v’era altro cane da ferma che il Bracco italiano.
Il siniscalco di Normandia, Luigi di Brazé, marito della bella Diana di Poitiers, nel 1519 scrivendo al Grand Maitre Gouffroier Signore di Boysi, lo informava di aver inviato, per ordine del re "due Bracchi d’Italia color marrone". Lo stesso Francesco I di ritorno dall’Italia, portò con se parecchi bracchi.
E ancora nel 1537, Maria de’ Medici regina di Francia chiedeva al padre, Lorenzo duca di Toscana, di inviarle "una bella e numerosa compagnia di quei cani Bracchi che tanta bravura dimostrano"
ed aggiunge che ne vorrebbe due o tre tutti bianchi, per contrapporli alla muta del re (i famosi chiensblancs du roi, che però erano segugi, antesignani alcune delle più famose razze da grande vénérie: i Billy ed i Porcelaine) e raccomanda che siano gagliardi e già bravi alla caccia "ché da inseguimento ne hanno anche troppi". Al che il Duca Lorenzo rispose che non poteva inviarle che undici cani di pura razza bracca, ma macchiati ed uno solo bianco essendo questi rarissimi.
Nel ‘600 le armi da fuoco migliorarono molto, e i Bracchi le servivano egregiamente e che il bracco di allora ricordi le caratteristiche morfologiche di quello di oggi, lo testimonia chiaramente Erasmo da Valvasone: "…..Larga abbia la fronte, quadra la persona, e che più vago il collo renda se, come bue, la soggiogaia penda".
Il ‘700 fu il secolo d’oro del Bracco Italiano; a quell’epoca non erano ancora comparse le razze inglesi, tedesche e francesi da ferma, né vi erano ancora le prove o field-trials che dir si voglia.
Erano allevati gelosamente dai nobili casati italici e solo raramente ceduti. Erano cani veloci, intelligenti, docili e potenti (come dice il Cancellari) e, a mio parere, così dovrebbero essere anche oggi.
Nell’800 il Bracco italiano conobbe un periodo di decadenza motivato dall’inurbamento col conseguente abbandono delle residenze di campagna. Così i bracchi rimasero alla mercé dei fittavoli, che incrociavano i cani che avevano in casa andando fatalmente in consanguineità e li alimentavano in modo insufficiente (allora era difficile alimentare gli uomini, figuratevi i cani).
Si aggiunga poi che nella seconda metà dell’Ottocento cominciarono a comparire le razze inglesi, selezionate dai gentleman britannici in competizione fra loro, veloci, sani e dalle grandi prestazioni, e il gioco è fatto: negletto e abbandonato il nostro divenne linfatico, grinzoso e poco mobile, solo lontano parente del "bracco dalla impetuosa carriera" del ‘700.
L’era moderna
A complicare le cose nel periodo fra le due guerre del ‘Novecento furono forzatamente unite le due razze di bracco italiano esistenti, il leggero o bracchetto e il pesante o nobile. Il primo, più dinamico e adatto ai terreni montani e collinosi e certo più attrezzato per fronteggiare la concorrenza degli inglesi e delle razze francesi e tedesche di recente costituzione.
Il bracchetto era accusato di aver subito l’influenza di sangue pointer, cosa comune a tutte le razze da ferma dell’epoca e della quale non era immune neanche il "nobile".
Le differenze morfologiche vennero estese ad entrambi: il peso e l’altezza vennero allargati in modo da farvi accettare le due razze con delle forbici semplicemente mostruose, che ancora oggi permangono nello standard ufficiale.
La canna nasale che era retta per il leggero e montonina per il nobile divenne retta o montonina, le orecchie accettate furono quelle del nobile, mentre il bracchetto le aveva inserite più in alto.
La accorata e appassionata difesa del "bracchetto" del commediografo Nino Berrini, sortì solo una diatriba letteraria senza seguito pratico.
Così, estintesi alcune correnti di sangue prestigiose di "leggieri" come quella degli Aschieri, i cani del re cacciatore Vittorio Emanuele II e dei marchesi Bagnasco, il bracchetto scomparve e rimase il bracco nella sua accezione "pesante": lento, macchinoso, poco adatto alle esigenze della caccia del tempo e destinato a soccombere di fronte alla concorrenza di razze più vicine alle esigenze dei cacciatori.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale perciò, il bracco italiano era quasi scomparso e comunque negletto dai cacciatori, con l’eccezione di pochi appassionati che difendevano l’indifendibile.
Furono dapprima Ciceri e Amaldi che riportarono il Bracco alla morfologia tradizionale e successivamente, dagli anni ‘70 in avanti, una attenta selezione, basata sui soggetti che si mettevano in luce nelle prove ha progressivamente privilegiato i soggetti più asciutti, più dinamici, con pesi e misure che stanno a metà dell’assurda forbice tuttora esistente (a dimostrazione che il conservatorismo tradizionalista rimane ben radicato nell’ambito dei braccofili).
Così il Bracco italiano, se non è ritornato agli antichi splendori, ha certamente ripreso dignità venatoria, e ora regge il confronto con gli altri continentali e malgrado la flessione importante del numero dei cacciatori e l’aumento esponenziale di quelli che si dedicano alla caccia del cinghiale, è riuscito a mantenere praticamente costante il numero dei soggetti iscritti all’ENCI, in un quadro generale del gruppo 7 (cani da ferma) che presenta una diminuzione in ogni caso prossima al 30%!”
Il bracco a caccia
Il bracco italiano, beninteso di buon sangue e di accertata genealogia venatoria, è un cane dotato di dinamica più che sufficiente a coprire tutto il terreno che un esigente cacciatore desidera che il suo ausiliare copra, dotato poi di grandissima resistenza, dovuta alla sua andatura principale che è il trotto, un trotto a sgambate lunghe e potenti, caratterizzato da un marcato tempo di sospensione di tutti e quattro gli arti, conseguenza della forza della spinta, testa a alta e mobile col naso al vento pronto a cogliere ogni emanazione.
Da non confondersi col trotto frenetico che sfoggiano molti soggetti agonistici, caratterizzato da sgambate frequentissime, rigidità dell’insieme, capo proteso in avanti che si estrinseca in diagonali assurdamente geometriche, senza quelle belle divagazioni che i braccofili definiscono accertamenti olfattivi.
Il trotto frenetico mostrato da molti agonisti è un’andatura non naturale, ottenuta con l’utilizzo intensivo di un attrezzo chiamato braga, che obbliga il cane a trottare in modo coercitivo.
Il trotto naturale del bracco di classe, non è nemmeno da confondersi col trotto molle e poco redditizio di soggetti dotati di scarsa passione e mediocri doti atletiche, che si trascinano intorno al conduttore, senza entrare negli sporchi nemmeno se il conduttore ve lo spinga.
Il braccofilo ama del bracco il suo modo di procedere, come detto, di trotto lungo, svelto e potente inframezzato da tempi di galoppo, specie appena liberato, quando il cane animato da grande passione darà sfogo alla sua esuberanza sfoggiando il suo tipico galoppone.
Simile ai cavalli lipizzani che si vedono alla scuola spagnola di Vienna o gli andalusi che si vedono a Jerez, il bracco esplorerà la campagna o i calanchi, dando un continuo spettacolo di eleganza e potenza, le sue diagonali saranno spesso interrotte da fasi di accertamento, nelle quali rallenterà deviando dal percorso geometrico andando a esplorare aree donde provengano fragranze sospette, così come bordeggerà, sempre di trotto, testa alta e mobile, i boschi cercando l’emanazione lasciata dal fagiano che avvedutosi dell’arrivo del cacciatore lascia la pastura e si rifugia nel folto; e trovato il “filo” lo seguirà i entrando senza indugio nel folto, bucando anche i roveti più spessi. Braccando così, ma senza forzarlo, l'atuto gallinaceo.
Entrando in emanazione il bracco, la risale rallentando progressivamente per cadere in solidissima ferma appena si accorge che l’emanazione gli proviene direttamente dalla selvaggina e così indicandola s’attende, immobile, monumentale l’arrivo del suo conduttore.
Ma se l’animale fermato cercherà di sottrarsi di pedina, lo seguirà senza perderlo, sempre con prudente movimento, ben alto sugli arti e col capo sempre proteso nell’aria.
Solo eccezionalmente metterà il naso in terra e lo farà solo quando le emanazioni stagnano e non vi è altro modo per risolvere situazioni particolari, ma non è questo il suo modo naturale di cacciare.
I beccaccini sono una sua selvaggina storica, l’antico bracco lombardo li cacciava abitudinariamente e il suo modo di lavorare sembra fatto apposta per insidiare la saetta alata.
Ma il bracco è anche un eccellente starnista, dotato di grande potenza olfattiva e della prudenza necessaria per fermare le sospettose pernici, grige o rosse anche a distanza cercando di evitare uno sfrullo fuori tempo e soprattutto fuori tiro.
Dotato di un naturale collegamento col suo conduttore si rivela anche ottimo beccacciaio.
Dovrebbe essere naturalmente dotato di riporto e recupero, che erano sue doti naturalissime, oggi purtroppo alcune correnti di sangue che praticano le prove senza sparo, hanno trascurato questa importantissima qualità e così capita talvolta di doverglielo reinsegnare, cosa che gli riesce agevolissima.
Il Bracco italiano è un cane facilissimo da addestrare, in pratica bisogna solo portarlo a caccia, il resto lo farà lui, cercando di accontentare sempre il suo padrone, a condizione che lo stesso non sia un ansioso che lo richiama ogni 5 minuti.
Lasciatelo fare, non chiamatelo, sarà lui a cercare voi e voi caccerete in silenzio senza disturbare la selvaggina con grida e fischi inutili e se ne gioverà il carniere.
Propria questa sua naturale propensione a cercare il suo conduttore, a mantenere un contatto visivo con lui, lo fanno consigliare a cacciatori che svolgano la loro passione in terreni misti: coltivi, prati, gerbidi, boschi e calanchi che non avranno bisogno a fine caccia di ripulirlo da spine ed erbacce come si deve fare con i soggetti a pelo lungo o duro.
Se abituato fin da piccolo, il bracco diventa molto acquatico e non avrà timore di gettarsi nella corrente dei fiumi o nei laghi anche in pieno inverno e giocando apprenderà sia a non temere l’acqua che a riportare prima gli oggetti che gli saranno lanciati e poi la selvaggina che cadrà anche nei fiumi impetuosi o nei laghi.
Annotiamo qui di seguito i più noti allevamenti di bracchi italiani presenti nel nostro Paese.
DEI SANCHI Allevamento del Bracco Italiano - Via Due Ponti, 25 - 47833 Morciano di Romagna, Rimini (RN)
tel. e fax +39 0541 988381
cell. 329 4260897
I Bracchi Italiani "di Val Ravanaga"
S.S. 32 23/A 28050 POMBIA (NO)
Tel. +39 0321.950.511
Allevamento Terra dei Nuraghi
Sardegna, provincia di Cagliari, comune di Cagliari
Indirizzo: via Giulio II, 43 - Tel: 3290903877
Allevamento "Polcevera's"
Liguria, provincia di Genova, comune di Bolzaneto
Di Maurizio Sodini e Davide Lai
Indirizzo: via Pino di Murta - Tel: 010/7455202
Allevamento Paludelonga
Puglia, provincia di Lecce, comune di Lecce.
Indirizzo: via Rapolla, 34 - Tel: +39.0832.311895
Delor Kennel
Piemonte, provincia di Alessandria, comune di Casale Monferrato.
Indirizzo: Strada Bigliona 42 Fraz. Terranova - Tel: 335 6147559
I Bracchi del Fisca
Lombardia, provincia di Milano, comune di Rho.
Allevamento di Vincenzo Fiscarelli
Tel: +39 338 8283804 -
I bracchi italiani delle Terre Alliane
Lombardia, provincia di Pavia, comune di Frascarolo.
Indirizzo: via Po 21/23 - Tel: 038484511
La Cascina dei Bracchi
Trentino Alto Adige, provincia di Trento, comune di Caldonazzo.
Indirizzo: via Palazzina 11 - Tel: 347 2750933
Le cinque anatre
Veneto, provincia di Vicenza, comune di Valstagna.
Indirizzo: via Oliero di Sopra, 51 - Tel: 3284766086
Rivana del Monte Alago
Liguria, provincia di Savona, comune di Savona.
Indirizzo: via Lamberti, 3/20 - Tel: 338 8451716