L’olio alleggerisce la canna del fucile di qualche macchia di ruggine di troppo, il grasso unge gli scarponi rinsecchiti da un’estate torrida come non si è mai vista prima e da un uso sicuramente fin troppo parsimonioso. L’arancio brillante si riaffaccia dagli armadi dei garage e i pantaloni antistrappo ci ricordano che a breve le strade da percorrere torneranno ad essere strette, scomode, fangose e per lo più disseminate da fitte trame di rovi. Per molti l’idea di un mondo aspro, che attraverso l’anno cambia colore e sfumature, temperature e umidità, non è una novità.
Vivono la caccia in una dimensione completa e profonda, in cui “lo schioppo” è solo uno strumento da sostituire a una roncola, a una falce o più semplicemente a un bastone. Sono uomini di bosco, non necessariamente eremiti banditi dalla vita sociale, ma spiriti semplici, fortemente connessi con l’ambiente naturale e che da esso traggono motivazione e forza vitale. Una visione poetica, assolutamente, che si manifesta senza esaltazione, con modestia, attraversando i mesi e le stagioni a contatto con un ambiente che attraverso la caccia, la raccolta dei frutti dei boschi, la campagna, rafforza quotidianamente quel senso di reciproca appartenenza in cui la natura riversa negli animi destini e speranze. Non hanno un’età definita e a volte tra padri e nonni si scorge anche qualche giovane trascinato dall’ambiente a vivere la bellezza travolgente di una natura indomita. A questi uomini la caccia non manca, non temono l’ansia della chiusura e non vivono la trepidazione dell’attesa, perché la caccia non è un’attività straordinaria che spezza il loro calendario, è una spontanea continuazione dell’esistenza, una pratica che affiancano ai tanti modi di assaporare il mondo esterno.
Uomini, caccia e natura
La forza che esercita oggi la natura sulla nostra esistenza è maggiore rispetto a molti anni fa, è una dimensione che fatichiamo a gestire, che rischiamo di perdere, con la quale sembra riusciamo a stento a dialogare. Quegli uomini, quelli che nella natura ci crescono e che la vivono profondamente, faticano a trasferire gli insegnamenti necessari a una generazione di nuovi guerrieri, forti nel vigore della giornata, ma spesso troppo leggeri nel chiudere i rapporti con l’ambiente esterno quando a gennaio il calendario segna tristemente la fine dei giochi. La caccia ha bisogno di essere vissuta, la natura ha bisogno di essere vissuta. Congelare i rapporti con l’ambiente, privarsi del sacrificio e del lavoro tipico della giornata di caccia, allontanarsi dalla fatica e dalla voglia di scoperta ci rallenta nel duro lavoro di conquista della conoscenza del mondo. Non ci accorgiamo di quanto fortunati siamo ad aver scelto la natura come luogo prediletto delle nostre giornate.
Solo gli atti del camminare e del respirare sono una terapia che le neuroscienze celebrano come forme di lotta contro la tossicità psicologica e carbonica della vita quotidiana, il contatto con piante e animali è un nodo indissolubile che lega ogni essere vivente alla propria dimora di appartenenza e se toccato con spirito, mostra quando determinante sia per la nostra sopravvivenza non rinunciare a quelle connessioni. Gli odori, i suoni, stimolano i sensi, e penetrati nel bosco notiamo come la nostra testa si muova accompagnando l’orecchio verso rumori di cui non avremmo mai avuto sentore, il naso si solleva spesso e sembra fiutare l’aria con inalazioni rapide e brevi allargando le narici, gli occhi si affinano e in molti, abituati agli occhiali da vista, sembra riescano a farne a meno in quei contesti. No, non è un caso, non è l’impressione, sono memorie di ceppo (come si usa dire per gli animali), memorie genetiche risvegliate da un ambiente che le ha forgiate e attivate attraverso inneschi delicati, silenziosi. Animali, questo siamo, nel senso meraviglioso del termine.
E anche la morte, il momento più crudo e decisivo della caccia, anche questo è un pezzo delicatissimo di questo intreccio di evoluzione e appartenenza, un moto perpetuo che spinge l’uomo a crescere e contemporaneamente lo tiene legato alle sue origini. La morte, appunto, quel momento esatto in cui l’animale si concede a noi, chiude le ali, abbassa il pelo, sgonfia le setole che innalzano la criniera mentre furente sfronda gli ostacoli nella macchia. Quel momento è un prezioso patrimonio culturale, un insegnamento sempre nuovo che l’uomo raccoglie dalla natura che fino alla fine dei tempi non mancherà, anche se vessata e afflitta, di concedere agli uomini i frutti della sua vitalità.
Piante, animali, funghi, radici, legno, terra, ossigeno e bellezza, si anche bellezza, perché gli uomini non mangiano solo con la bocca ma anche con gli occhi, da li si approvvigionano della meraviglia e dello stupore e in quegli istanti cosi forti da sostenere, impara a gestire le risorse, a prendere quello che può e lasciare quanto deve. Questo è il gioco della caccia, questa è la cultura della caccia, non un esercizio di bravura nel prelievo, ma un difficile equilibrio da ricercare ogni volta tra ciò che ti viene messo a disposizione e ciò che devi saper lasciare. Solo la caccia ha la capacità di trascinarti cosi a fondo in queste dinamiche, trascinarti a conoscere i ritmi della natura, il rispetto per le specie e la convivenza. Quegli uomini, quelli che poco sopra raccontavamo vivono di natura, tutto l’anno, questa indole ce l’hanno impressa nel profondo, è parte dei loro rituali quotidiani e da loro va compresa.
Se la caccia è questo grande insegnamento allora non c’è calendario per questa scuola, non può essere nascosta tra lavoro e hobbies per riemergere improvvisamente in autunno. La caccia, questo stato di valori naturali assoluti, vanno diluiti con diligenza lungo l’arco dell’anno, approfittando delle esigenze delle squadre, delle urgenze climatiche che atterriscono gli animali, della cura dei boschi, delle necessità di categorie prossime alle nostre passioni con cui intrecciare rapporti e professioni. Dobbiamo approfittare dello sport, che ci apre l’ingresso in aree estreme e poco conosciute, delle comunità che si muovono alla ricerca di emozioni nei boschi per tenere vicino le famiglie a un luogo che dovremo sempre più proteggere ancor prima che affrontare. Non perdiamo occasione di accendere un dialogo con gli uomini di macchia, con quelli che dai tempi dei tempi, la domenica di ogni mese dell’anno tornano a casa con un cesto di funghi, una lepre, un cestino di more, un mazzo di asparagi, loro sono custodi di tutta la cultura di cui avremo bisogno per vincere le sfide che ci aspettano, loro conoscono i rituali e ritmi della natura e sul loro calendario non c’è un domenica di settembre cerchiata di rosso, né uno schioppo da lucidare o uno scarpone da ingrassare. L’attrezzatura è tutta li, appoggiata idealmente dietro la porta di casa, pronta ad affrontare il freddo dell’inverno e il caldo dell’estate.