Perdonatemi l’ardire, ma sono certo che nomi come quelli di Frank McCarthy e Henry Farny, Frederic Remington, Thomas Moran o George Catlin a moltissimi di voi diranno poco e niente, forse nulla. Eppure, hanno un’importanza assoluta per quello che sto per dirvi, dato che proprio questi sono fra i principali “pittori della frontiera”, ovvero quegli artisti che seguendo carovane, pionieri e trapper alla conquista del West, seppero tramandarci immagini storiche che poi avrebbero costituto l’iconografia di innumerevoli e molto più note pellicole cinematografiche a tema indiani!
E nell’opera di questi artisti, infatti, che per la prima volta nella storia appaiono ai nostri occhi le immagini esotiche e mirabolanti delle varie tribù dei nativi americani, per Lmassima parte dedite alla caccia.
Una caccia che testimoniano nel loro vestiario, completato da accessori che raccontano di genti perfettamente integrate all’ambiente naturale.
Saranno dunque etnografi e antropologi culturali a spiegarci come “strani” copricapi di piume, abiti e monili, utensili e pitture fossero tutto meno che decorazioni, quanto piuttosto un universo di simboli pieni di significati da scoprire, che di quel cammino dall’umano al selvaggio (e viceversa, sino alla piena immedesimazione), altro non erano che memorie visive da portarsi sulla pelle!
Già, perché per essere accettato dalla comunità degli anziani come un cacciatore Irochese o Lakota, non bastava prender su un arco o una lancia, uscire e andare a caccia!
C’erano degli insegnamenti da apprendere, un cammino da percorrere. Un percorso di consapevolezza e apprendimento che per le sue valenze cosmiche e radicali in unum, non possiamo che definire… sacro!
La lezione del pellerossa!
Il percorso di cui parliamo infatti, è quello che portava un ragazzo a immergersi nel selvaggio per esserne parte integrante. Sino a divenire lui stesso albero e roccia, vento e pioggia, foglia ed acqua: uomo e cacciatore poiché la sua presenza nel contesto naturale diveniva uguale a quella di un lupo o un puma in cerca per la caccia.
Le penne d’aquila fra i capelli? Erano quelle che il giovane doveva essere capace di prendere dalla coda di un’aquila viva, scalando montagne e standosene appostato ore e giorni. Attimi d’eternità in cui lo spirito degli elementi naturali –aquila inclusa- entrava in lui, mentre capiva e conosceva, fino a vibrare di un’unica nota in piena sintonia con l’ambiente circostante e le sue creature.
Le pitture? Erano fatte degli stessi pigmenti usati nel rituale d’iniziazione e valutazione più estremo, quello che vedeva il giovane con le palme delle mani intrise di colore divenir capace di avvicinarsi a un cervo tanto da poterlo toccare: e così marchiarlo col suo segno, in modo che i vecchi potessero sapere - e lui con loro - che da quel giorno c’era un ragazzo in meno nella tribù, ma era nato un cacciatore!
A saper leggere fra le righe quanto appena esposto, si capisce in un attimo quel che dovrebbe essere il percorso ideale di avvicinamento alla caccia in generale, e dunque a quella con il cane in particolare. Che per l’appunto è fatta di due elementi palesi già nella sua definizione. È caccia, quindi per poterla praticare bisogna saper divenire cacciatore (e ora sappiamo anche cosa significa). È attività che poi si incentra nel rapporto con il cane: un animale, quindi un essere naturale mosso dagli istinti e centomila volte più integrato di noi alla natura selvaggia in quanto tale!
Tutto per dire che se non si è capaci di divenire innanzitutto noi selvaggi, naturali ed istintivi, il gioco non funziona!
Per questo nella prima parte di questo lungo ragionamento dedicato alla caccia col cane da ferma (e non finisce qui!), avevo accennato all’assoluta necessità di divenire prima di tutto noi cacciatori in quanto tali, e allora e solo allora, dedicarci alla caccia con il cane nelle forme che finiremo per preferire.
In parole semplici: analizzando il percorso di un giovane nativo americano che voleva e infine diveniva cacciatore, cosa è che mancava? Il cane! Ma c’era il cacciatore che sapeva essere due-in-uno, e che cacciatore…
Diventare cacciatore, diventare cane!
Oggi tutto questo è pressoché impossibile farlo nei modi e riti appena descritti, eppure è quanto mai necessario capire che, pur con stili e processi differenti, è esattamente quel che bisogna fare per sperare di poter essere un bel giorno cacciatore prima, e cinofilo poi!
La via ideale, quindi, è una ed una sola e prevede senza se e senza l’assoluta necessità di praticare e prima possibile tutte le forme di caccia che si può, e sin dalla più tenera età. Ché nessuna teoria potrà mai tener luogo della pratica indefessa!
E questo ben lo sanno tutti quelli come me, che sin da piccoli, nati “storti” e cresciuti fra greppi e fossi col pallino della caccia già nella culla- si son ritrovati ad iniziare trappolando passeri e fabbricando fionde per far la posta ai ramarri sui muri!
Sì, parlo di noi che la trafila “selvatica” l’abbiamo fatta tutta, passando poi dal fucile a gommini, agli archi e frecce con le stecche degli ombrelli, sino alla prima agognatissima carabina a piombini per appostare i sorci e quindi, sotto la guida degli adulti (i nostri “anziani”), finalmente i primi colpi di fucile e infine, conseguita la licenza, i primi passi in solitaria in campagna.
Il cane? E chi te lo faceva prendere, il cane?!
Noo, dovevi fare tutto da solo, quel che si poteva, e facendoti bastare te a te stesso in tutto.
Ma era lì che per imparavi l’importanza del mimetismo e degli affili, le abitudini degli animali e conoscevi il territorio. Dov’erano le abbeverate, i diacci ed i caldesi.
Lì che per sperare di portare a casa qualche cosa di diverso di qualche ghiandaia, merlo, tordo od uccelletto, eri costretto a saper leggere i segni del terreno. Imparando a riconoscere le unghiate del lepre, e a distinguere le fatte della femmina da quelle del maschio. A capire i luoghi di pastura del fagiano, e quelli dell’imbrocco. Ad avvicinarti quatto quatto al laghetto senza far rumore, per provare a tirare un porciglione od una gallinella (sperando nel germano). A studiare i boschi dove poter levare una beccaccia con i piedi per azzardare una fucilata alla regina! Sino a distinguere in quello che per tutti è “solo” un “bosco”, il carpino dal faggio, il larice dal mugo, il frassino dall’olmo, la quercia e la betulla! Non più “alberi”, ma creature tutte con un nome proprio…
Tutto da solo, dalla cerca al tiro al recupero sino al… “riporto”!
Sì che capivi come segnare il possibile luogo di caduta d’un capo colpito nel folto fino a ritrovarlo e farlo tuo: …come un cane!
L’integrazione nella natura: “e avrai carezze, per parlare con i cani!” (Claudio Baglioni)
L’importanza di tale processo è chiara! Da un lato fa sì che un uomo divenendo cacciatore, cedute quote di umanità e fatto emergere (o introiettato?) il suo lato più selvaggio, finalmente possa capire il linguaggio altrimenti segreto della natura, fino a muoversi con naturalezza fra elementi, habitat ed animali.
Parlandoci nella stessa lingua, e capendola quando sono gli elementi stessi a parlargli!
Dall’altro porta in dote il fatto che - divenuto cacciatore - finalmente possa comprendere quel che un cane deve saper fare per essere utile, e i modi necessari per comunicarci. Non più e solo da uomo ad animale, ma da pari a pari, da selvatico a selvatico!
Di qui e solo di qui, è possibile iniziare a dedicarsi alla caccia col cane da ferma con piena cognizione di causa e relative soddisfazioni.
In un rapporto che possa partire dall’assoluta, piena consapevolezza di:
- Ambienti: che non sono tutti uguali, e ognuno va affrontato a modo proprio. Conoscendone segreti e pericoli, morfologia e conformazioni.
- Selvatici: avendo introiettato tutte le tipologie comportamentali, tutte le abitudini e possibili “stranezze”. Specie per specie. Sesso per sesso. Età per età. Incluse le strategie che attuano col variare degli ambienti e dei climi sulla scia delle stagioni. Perché un fagiano non è una beccaccia, e questa non è né una quaglia né un cotorno, un forcello o un beccaccino. Perché un maschio di fagiano si comporta in maniera differente da una femmina, così come una beccaccia di prim’arrivo nel ceduo non è una di lungo corso fra forti da cinghiali.
- Elementi naturali: perché col secco è una cosa, col bagnato un’altra, col vento un'altra ancora così come col gelo e così via!
Dice, ma l’uomo ha un’anima e un’intelligenza? Anche i cani!
Ma quella dell’uomo - almeno l’intelligenza - è superiore?!
In teoria, amico mio! Dato che in quell’arte che è la caccia, il vero cinofilo cacciatore è solo quello capace di metterla al servizio del fine che si propone, questa presunta intelligenza: avere al fianco dei veri ausiliari essendo capace di valutarli, metterli sul terreno e favorire il dispiegarsi delle loro qualità.
Capendone spirito, carattere e doti. Chiedendo loro solo quel che è logico e intelligente chiedergli. Sapendo capirli nelle loro di indoli e intelligenze specifiche, sino alle differenze caratteriali. Che sono cospicue da individuo a individuo (a prescindere da razze e provenienze genealogiche).
Insomma, come vedremo nella terza parte di questa nostra modesta dissertazione, pronto per essere definito cacciatore col cane da ferma è solamente colui che - mi perdoni Kevin Costner - un pellerossa dopo averlo ritenuto fratello, avrebbe chiamato… Balla-coi-cani!