A Roma, quando uno si fa sorprendere in atteggiamenti equivoci (o sembra duro di comprendonio), immediatamente gli domandano: “Ma cce sei o cce fai?” Orbene, vivendo ormai nell’epoca dell’immagine, dove conta più ciò che appare di quel che si è realmente, ed essendo che questa mentalità perversa ha contaminato un po’ tutti i campi, a malincuore debbo dire che più di una volta mi è capitato d’incontrare cacciatori, specie tra i più inesperti, i quali soprattutto… cce facevano! Gente convinta insomma, che bastasse acconciarsi alla moda, munirsi di fucile super specialistico, ausiliari “garantiti” (…mi vien da ridere a dirlo) per potersi dedicare ad una caccia in verità assai selettiva; convinti non di meno di poter fregiare se stessi del titolo ambitissimo di specialisti solo perché… praticanti. Il campo in cui questo teatrino trova oggi il maggior numero d’attori è noto a tutti: la beccaccia! …E questo ha un suo perché. E’ il selvatico di gran moda, quello che tutti –forse colpa la mitizzazione di cui è stata oggetto- sognano d’incarnierare.
…Per carità, liberi tutti di fare come si vuole; di sognare quel che si vuole; pur tuttavia, una cosa, fatemela dire: nelle cacce ad alto tasso di specializzazione l’abito non è mai riuscito a fare il monaco, mai!
Eppure il fatto permane ed il fenomeno si dimostra in crescita. Che trattasi di fiction tuttavia è chiaro e per una ragione ben precisa: è facile atteggiarsi a beccacciari e così credere di essere cacciatori veri. Gli ambienti sono abbordabili e molti dei quali familiari, il selvatico è difficile ma non impossibile. Una verità inconfutabile emerge tuttavia a questo punto: non solo quella alla beccaccia è vera caccia!!! In termini di cinofilia venatoria anzi, volendo stilare un’impudica graduatoria di difficoltà (e dunque di merito), possiamo tranquillamente affermare che beccacce e starne vengono parimenti al III posto; il beccaccino occupa da par suo la posizione d’onore; mentre tutti lasciano la vetta a quegli animali che della medesima han fatto dimora: parlo di galli, bianche e cotorne. Di qui il fatto che nessuno può mettersi a giocare al beccaccinista; di qui quello ancora più notevole che nessuno mai, neppure per scherzo, può improvvisarsi o mettersi a raccontare d’essere cacciatore di montagna. …Eppure sai quanto farebbe più figo!?! …Certo. Gli è tuttavia che vuoi per gli ambienti, vuoi per la difficoltà intrinseca dei selvatici in questione, se in padule già devi stare attento di tuo, in montagna il tutto si complica in maniera esponenziale. …No amico caro, così come il beccaccinista, ancor di più nun ze po’ fa il cacciatore di montagna: …tocca esserlo!
Il perché le cose stiano così e non altrimenti deriva da quelli che a tutti gli effetti sono gli assi cartesiani che delimitano sia “i sogni” ché la prassi della caccia in questione: ovvero la montagna come ambiente specifico ed i selvatici peculiari che nella notte dei tempi, nel corso dell’evoluzione millenaria, l’elessero a dimora.
Sia infatti che si parli d’Appennini, ma ancor di più se si discorre di Alpi, comunque dobbiamo metterci a considerare che le montagne, tutte, sono ambienti difficilissimi da cacciare in quanto tali; caratterizzati vieppiù da pericoli e minacce più o meno palesi che se non si conoscono posso tranquillamente porre a serio rischio la vita di quegli sprovveduti che ventura abbiano ad affrontarli. Cenge ardite e vette irraggiungibili, rocce scivolose e botri orrendi, sbalzi climatici repentini quanto aspri; questi solo alcuni degli aspetti che fanno della montagna un ambiente che, al pari degli abissi marini, corretto è definire quale estremo. E così come negli abissi possono spingersi, specie a predare, solo esperti subacquei, gente nata e cresciuta sul mare; altrettanto sulle vette possono sperare d’aver successo solo coloro che la montagna l’hanno dentro poiché esperita sin dalla più tenera età, oppure poiché ne son parte integrante; visto che proprio là -dove le arie son rarefatte, il paese magnifico e puoi cacciare parlando con Dio- tanti anni fa apriron gli occhi a questo mondo che per loro e solo per loro, di lì in poi, sarebbe sempre stato delimitato da boschi profondissimi, alpeggi e creste di rocce, larici e rododendri, tutti immersi in quel cadenzato mutare di tavolozza portato ciclicamente dalle tante stagioni… Parlo di montanari, veri cacciatori di montagna, capaci per volontà e passione di restare nella propria terra, conoscerla e amarla, temerla e rispettarla, il tutto nel nome di quella magia che chiamiamo caccia e che lassù, oltre i 1000 e più su, dove l’aria è diversa e le città non esistono, mena a legare in un unico filo di destino esistenze diverse di grandi cacciatori, grandissimi cani ed uccelli selvaggi...
Bianche, Galli e Cotorne (e qualche francolino)
Un elemento accomuna tutta la tipica avifauna montana: quello d’essere retaggio di ere perdute. Due (più uno) son infatti tetraonidi, uccelli nella cui morfologia è come narrata quella stagione del mondo che fu scolpita nel freddo e nel ghiaccio; quando le nevi perenni coprivano gran parte delle foreste europee e ancora camminavano l’ursus speleus, lo smilodon (volgarmente detto: tigre dai denti a sciabola), l’uro, il bisonte lanoso ed il mammouth. Quanto alle coturnice poi –alectoris graeca graeca- è il suo stesso nome che la descrive come uccello pervenuto per erratismo nella terra che poi sarebbe stata chiamata Italia; accadeva quando l’Adriatico era un lago di acqua salata e lo Stivale si trovava ancora unito, nelle sue propaggini meridionali, ai Balcani…
Quanto alla loro diffusione poco da dire: forcelli, bianche e francolini sono reperibili esclusivamente nella “Zona Alpi”, mentre la coturnice –con riduzioni numeriche consistenti, per non dir spaventose- la si può ancora trovare, in circoscritti areali, anche nell’Appennino centrale. Di tutti questi solo il francolino, per il suo comportamento anomalo e la spiccata vocazione arboricola, non è specie insidiabile come tradizione comanda col cane da ferma, mentre tutti gli altri, come mi sono sforzato di dimostrare sin qui, rappresentano il vero e proprio non plus ultra per cani e cacciatori di rango. Selvaticissimi esseri adattati da ere immemorabili a sopravvivere in ambienti estremi coi quali non è possibile scherzare un solo istante. Ma andiamo a conoscerli un po’ meglio e a vedere la loro attuale situazione…
Gallo Forcello: è animale superbo e conosciutissimo fra i cacciatori tutti, sì che riterrei oltremodo imbarazzante mettermi a descriverne la regale morfologia. Altrimenti detto fagiano di monte si differenzia in tutto, fuorché la mole, dal colchico. Sospettosissimo infatti specie d’adulto, non consente che a “draghi delle vette” d’averne ragione, sia che si parli di cacciatori che soprattutto di cani. Dagli attuali censimenti svolti in zona Alpi pare che l’odierna popolazione superi il numero complessivo di 40.000 capi. Ovviamente si spara solo ai maschi…
Bianche: maldestramente definite pernici, forse per le similitudini apparenti con queste, in realtà trattasi di tetraonidi; sorelle germane dunque della grouse e parenti prossime del cedrone e del forcello, dei quali per elusività e ambienti frequentati fotocopiano le caratteristiche. La consistenza attuale della specie, ora che con grande fatica si è cercato di ripristinare gli specifici biotopi, appare purtroppo ancora troppo scarsa per dormire sogni tranquilli. C’è da lavorare tanto specie sul versante della prevenzione e dei danni che altre specie selvatiche, cinghiale in primis, stanno procurando anche in montagna con la loro incontrollata diffusione.
Coturnice: oggi come oggi si deve circoscrivere l’intero fenomeno-coturnice a circa 10.000 coppie in tutto l’arco alpino nazionale e massimo un migliaio, forse meno, su tutta la dorsale appenninica. Roba da mettersi a piangere. Causa primaria di questa rarefazione è stata –come per la starna in collina- la fine della civiltà contadina… in chiave montanara. Ovvero l’abbandono delle attività rurali tradizionali (in questo caso d’alta quota) e la trasformazione della montagna in luogo di villeggiatura di scalmanati domenicali e sciatori cittadini che nulla sanno “del segreto del bosco vecchio”. Per non dire poi, in Appennino, della maledetta parcomania… A minacciarne le covate infatti, di recente, un po’ dappertutto sta contribuendo l’incontrollata diffusione di un animale che andrebbe, se non cacciato tout-court, quanto meno fatto oggetto di prelievo selettivo: dico della marmotta. Onnipresente roditore che danneggia la coturnice sia bucando il terreno di pastura delle vaccine e costringendole a frequenti spostamenti, con relative difficoltà da parte delle “regine delle rocce” a reperire pastura; che –comportandosi da normale sorciolone- predandone le uova… Un disastro che va senza meno evitato!
…Dico questo perché al di là di discorsi relativi a biodiversità etc. questi tre selvatici rappresentano a tutti gli effetti uno degli ultimi, veri patrimoni cinegetici nazionali. Una delle ultime palestre che se anche a pochi destinate, in ogni caso nobilitano a livello internazione un universo venatorio che appartiene alla più alta e profonda cultura del popolo cacciatore. Quella di cui è bello anche aver semplice testimonianza, magari leggendo su Diana o sui libri dell’Olimpia, di cacciatori fantastici perduti in alpeggi mozzafiato che sin dalle prime luci dell’alba, con al fianco cani leggendari, amavano ed ameranno ancora ascoltare quel canto che di balza in balza in balza annuncia al cielo stellato il ritorno alla vita della coturnice: prologo a giornate di caccia immaginifiche santificate altresì da frulli di bianche e boscherecci forcelli…
Io e la montagna
Non mi va di millantare crediti… Io la montagna l’ho conosciuta poco e cacciata ancor meno; ma ho altresì avuto il privilegio di potermi definire amico di alcuni grandissimi in questa caccia (e le mie conoscenze al riguardo, sono le loro). Tra le rare volte che l’esperii di persona una mi staglia ancora nella memoria con precisione assoluta. …Era una bella giornata d’ottobre e s’era partiti da valle che pareva fosse estate; nostra meta le vette dei Sibillini, nel cuore del “parco”, per un sopralluogo nei siti in cui poi avremmo fatto delle riprese relative alla coturnice. Ci guidava un gentilissimo guardia di cui ahimè, non ricordo il nome.
Me l’aveva presentato il povero Mimmo Travaglini, per anni firma prestigiosa del panorama venatorio nazionale e mio carissimo amico, dicendomi che era un esperto cacciatore di cotorne a riposo a causa di un tragico evento che aveva minato la sua esistenza. Una volta giunti in quota, coi ragazzi della troupe, dopo poco si venne sorpresi da una di quelle variazioni climatiche improvvise capaci di trasformare la montagna in un inferno. Sole ed estate furono scancellati in un istante da nuvole basse, freddo e nebbie: si batteva i denti e non si vedeva più ad un palmo dal naso. Dopo poco iniziò a cadere una pioggerella gelata. Girovagammo come perduti in una strana dimensione lunare. Trovammo vestigia di cotorni e cammin facendo si giunse come per caso a uno strano tumolo di pietre sormontato da una croce. Che ci faceva lì? Il guardia si armò d’un mesto sorriso e ci spiegò che in quel luogo, un giorno come quello, era morto per una caduta suo fratello; un grande cacciatore di coturnici, uno dei tanti –cani compresi- che talvolta la montagna decide di trattenere con sé per l’eternità…